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Ricordate Moncler e la crisi delle piume scatenata dalla puntata di Report? Ne avevamo parlato anche noi, quando nello scorso novembre il team di Milena Gabanelli parlò delle condizioni in cui versavano le oche che “rifornivano” di piume ogni piumino.

Già durante le “ore” della crisi, ci eravamo chiesti se l’apparente fuoco di fila osservato nelle varie discussioni social avrebbe comportato un reale danno all’azienda di Remo Fuffini.
Ebbene, a distanza di sei mesi abbiamo i primi risultati per rispondere al quesito.

Infatti, è di qualche giorno fa la notizia che il primo trimeste del 2015 per Moncler è stato decisamente positivo, con un aumento percentuale dei ricavi del 69% rispetto al 2o14.

Un trend positivo confermato anche dall’andamento del mercato azionario, che in questo periodo conferma come il titolo sia decisamente in salute.

Risultati interessanti, anche se influenzati  dal mercato americano e canadese, il quale si è rivelato essere un traino prezioso per il brand e il suo fatturato. Eppure, alla fine dello scorso anno, anche a un mese dalla puntata incriminata fioccavano le proteste sulla brand page di Facebook: l’eco dello scoop di Report non è arrivato negli States?



Come si può osservare, alcuni utenti riportavano la notizia anche da siti stranieri: eppure, gli effetti apocalittici previsti non si sono visti. Così come non si sono osservate reali operazioni di risposta alla crisi d’immagine. A parte un comunicato sul sito di prodotto (leggibile ancora oggi, grazie a una sezione dedicata solo sul sito italiano), non sembra esserci stato un particolare intervento da parte di Moncler.

Ci sono brand che, partendo da casi simili, hanno dovuto influenzare anche pesantemente la propria comunicazione: fra le tante, Nestlè, storicamente accusata delle peggiori nefandezze in giro per il mondo e attentissima a mettere in evidenza il proprio approccio ai temi di sostenibilità.



Un esempio evergreen sul tema di come si affrontano le conversazioni “negative” online, ma che può facilmente introdurre un altro caso che ha accompagnato, nel 2013, i dibattiti degli addetti ai lavori sul tema del community management e, in generale, del ruolo più “alto” ed emozionale delle aziende. Quello di Barilla.

Ricordate le dichiarazioni di Guido Barilla a La Zanzara sul tema dell’omosessualità? Ne avevamo parlato anche noi, nel settembre 2013.

A distanza di un anno e mezzo, lo scenario che si era prefigurato è radicalmente cambiato. Se nel 2013 anche Mashable poneva l’accento sul caso, evidenziando come il boicottaggio fosse richiesto da ogni parte del mondo, un anno dopo è Il Post a presentarci un brand diventato a tutti gli effetti “gay friendly”.

Un’azienda diventata parte del Parks (associazione dei datori di lavoro rispettosi delle diversità) che il Corporate Equality Index ha valutato 100/100, e che oggi può considerare completamente “ripulita” la propria immagine grazie anche alle scelte in termini di comunicazione.

Una crisi che poteva avere ripercussioni pesanti ma che è stata brillantemente sfruttata, per cogliere nuove occasioni e aprirsi così a nuove possibilità (e a nuovi cluster).

Da Moncler a Barilla: la differenza stava solo nei “temi” della crisi?

“Crisis factor”: tempo e sensibilità

Non ci sono regole fisse per definire se sia il caso di dare delle linee guida sulla gestione di una crisi d’immagine, se non quello del più elementare community management. Così come non abbiamo conferme che una dichiarazione o uno scoop che comportino conversazioni negative attraverso i social siano realmente delle occasioni per migliorare il proprio status nei confronti dell’audience. Sia Moncler e Barilla hanno comunque raggiunto i loro obiettivi.

Uno ha colto l’occasione per rinnovarsi, l’altro ha mantenuto coerentemente il proprio statement: se però non è possibile costruire delle regole fisse da applicare, possiamo provare a teorizzare quali siano le cause che rendono una crisi tale, isolando due fattori decisivi:

Il fattore tempo: la saturazione dei contenuti digitali a disposizione degli utenti, con il pericolo di un Content Shock sempre più imminente e probabile, sta pian piano appiattendo l’attenzione dell’utente, che rimane sempre più superficiale nelle reazioni verso notizie e comportamenti “negativi”. Casi come quelli di Mosaico Arredamenti (datato 2008 e riproposto in un post del 2011 dal nostro Alberto Maestri) oggi non solo sarebbero molto difficili, ma certamente perderebbero d’importanza nel medio periodo perché superati da altri simili che, statisticamente, potrebbero verificarsi. Oggi non si contano le crisi d’immagine che possiamo osservare sui social: tante sono le community che ruotano intorno ai brand, tanti potrebbero essere gli errori che le aziende possono commettere. Provocatoriamente, possiamo dire che è l’azienda che può determinare e amplificare gli effetti in senso positivo, come nel caso di Barilla o di Algida con il Winner Taco: certo, tutto questo in linea teorica. Il fattore tempo è però stato abbastanza decisivo per Moncler: a distanza di sei mesi, infatti, gli echi della “battaglia delle oche” si sono persi.

Il fattore “sensibilità“: il pubblico è composto da utenti ormai consapevoli delle possibilità dei social network. Anche i meno skillati sanno che il proprio commento può diventare strumento di dialogo, e che un’eventuale censura alle proprie critiche potrebbe diventare un boomerang. Gli attacchi, se portati in massa, talvolta evidenziano posizioni stereotipate e poco approfondite, che non sempre equivalgono a una mutazione nelle preferenze d’acquisto. Sottolineiamo: non sempre. Rimane il fatto che la customer experience personale sia diventato un fattore che contraddistingue il rapporto consumatore-azienda, e influenza le scelte del primo nei riguardi della seconda: “Ci vogliono 12 esperienze positive per porre rimedio a una sola negativa. In termini temporali, questo significa che un’azienda impiega in media 2 anni per ricostruire la propria credibilità agli occhi del cliente.” recita un pezzo del blog del Digital Customer Experience Forum, nel quale si cita una ricerca di Gardner Forrester. Una sensibilità che fa del consumatore un attore critico e pronto anche a ricredersi sulle proprie scelte.

Dovremo attendere la prossima crisi d’immagine di un brand leader per avere un altro case history da aggiungere al nostro personalissimo database di studiosi del web 2.0: certamente, lo scenario è ancora oggi in evoluzione ed è ancora difficile stilare una lista di best practice da cui partire.

Moncler e Barilla però hanno saputo indicarci come, a partire da due problematiche simili, si possa arrivare a ottenere un risultato positivo con strategia diametralmente opposte. Quali delle due scuole sia la migliore, beh.. Presto per dirlo.

Fonte: ninjamarketing