Il blog di Comma3

Comma3 - Strumenti e soluzioni per comunicare con internet

YouTube da record, 48 ore di video caricate ogni minuto

Dopo 6 anni di attività YouTube taglia il traguardo di oltre 48 ore di video caricate ogni minuto: un record risultato di una sfida che il sito aveva lanciato a novembre. Ogni minuto su YouTube vale dunque due giorni di video: un aumento del 37% rispetto agli ultimi 6 mesi e del 100% rispetto allo scorso anno.

A determinare la crescita fattori come un processo di caricamento più rapido, una maggiore durata dei video, il live streaming per i partner come, fra i più recenti, le nozze dei Reali d’Inghilterra e la Beatificazione di Giovanni Paolo II.

Inoltre, lo scorso weekend, la community ha contribuito a far superare i 3 miliardi di visualizzazioni al giorno, un incremento del 50% rispetto all’anno precedente. In prospettiva, questo dato equivale a quasi la metà della popolazione mondiale che ogni giorno guarda un video su YouTube.

Negli ultimi anni sono tante le cose fatte: sempre più iniziative globali come la YouTube Symphony Orchestra (un successo anche nella seconda edizione) o Life in a Day, sempre più partnership con produttori di contenuti come quella con La7, sempre più interviste in live stream con i grandi della terra come quella del Presidente Obama o del Presidente Zapatero.

Prossimo obiettivo per il sito le 72 ore di video al minuto o i 4 miliardi di visualizzazioni al giorno.

Fonte: http://www.lastampa.it

La pubblicità su internet scopre i social network

La marcia dell’economia digitale passa anche per le vendite online e la pubblicità, riproposizione postmoderna del commercio e della sua vecchia anima. Dinamiche che s’insinuano in quella filiera della complessità e all’interno di quei percorsi condivisi che necessitano di essere raccontati in 140 caratteri (su Twitter) oppure ripostati (su Facebook), potente megafono del nostro e dell’altrui pensiero.

Dell’economia dei nuovi media, di marketing digitale, di editoria, nuove televisioni e cyber advertising si è parlato ieri al Forum Digital Media organizzato dal Sole 24 Ore, nel corso del quale è stata presentata una ricerca dedicata proprio ai consumatori digitali.

«Solo il 54% degli italiani è connesso a internet – ha spiegato Antonio Noto, numero uno di Ipr Marketing, che ha realizzato il report – e sono le donne e i giovani le categorie che in media passano più tempo sulla rete: 4 ore al giorno il 37% delle prime contro il 39% dei 18-34enni». Anche se il dato più interessante riguarda proprio l’ecommerce: nell’ultimo anno sul web hanno fatto acquisti online quasi 8 italiani su dieci e i prodotti preferiti sono quelli dell’editoria: libri, film, musica, seguiti da elettronica, informatica e abbigliamento.

E tutto avverrà sempre di più anche in mobilità, se è vero quello che ha detto Cesare Sironi, amministratore delegato di Matrix e head of innovation di Telecom Italia: «In tutto il mondo nel 2011 conteremo 4-5 miliardi di devices connessi, ma nel 2020 saranno probabilmente 50 miliardi. Tra questi rientrano anche le tv, che in tempi molto più brevi saranno tutte online».

La televisione, appunto. «Da questa stagione Mediaset ha messo a disposizione l’intero palinsesto – spiega Yves Confalonieri, direttore Rti interactive media – e non ha tolto nessun ascoltatore alla tv». Dello stesso avviso Andrea Portante, responsabile marketing di Rai nuovi media: «Non c’è alcuna cannibalizzazione tra le piattaforme».

E la pubblicità? Quest’anno l’advertising online arriverà a valere in Italia oltre un miliardo di euro sui 9,2 miliardi del mercato complessivo, ancora dominato per quasi il 60% dalla televisione. «Dal punto di vista pubblicitario nel futuro ci saranno tre internet – dice Luca Paglicci, a capo della Websystem, la concessionaria online del Sole 24 Ore – l’editoria online, il social networking e poi Google, ovvero la search. Il mondo dell’editoria non perda occasioni».

Ma per far decollare gli spot online «servirà trovare nuovi formati e non fermarsi al banner, i creativi in questo senso non hanno ancora dato il meglio di sè», sostiene Francesco Giromini di Bright.ly. Di pubblicità “social” ha parlato Luca Colombo, country manager per l’Italia di Facebook, che ha spiegato come sul “libro faccia” «le campagne possano prevedere anche budget limitatissimi pur essendo sempre più potenti».

Fonte: http://www.ilsole24ore.com

In azienda la rivoluzione dei social network E’ il momento della Weconomy

ROMA – Facebook, Skype, Youtube: sul lavoro non sono occasione di distrazione, ma piuttosto strumenti che stanno rivoluzionando in positivo le relazioni tra colleghi e tra aziende, favorendo la collaborazione e la trasparenza. E’ quanto emerge da un’indagine che verrà presentata il 24 maggio a Milano, in occasione del Weconomy Day, organizzato da Logotel e dal Centro Formazione Management del Terziario (CFMT). Secondo l’indagine, effettuata dal CFMT, e che ha coinvolto un campione di oltre 1.000 imprese dei servizi e del commercio, il 20% delle aziende italiane del terziario utilizza le piattaforme di social network. La più utilizzata in azienda è Skype (48%), seguita da Linkedin (36,8%), Facebook (29,8%), Youtube (26,4%), e infine dalle piattaforme wiki (19%) e dai blog (17,3%). Percentuali destinate ad aumentare nel prossimo futuro.

Molti manager sono convinti che l’uso di quelli che sono stati definiti strumenti di “weconomy”, cioè di economia condivisa, non possa che favorire l’impresa. “Nel modello economico che sta prendendo piede – spiegano gli analisti del CFMT, centro di ricerca nato nel 1994 per iniziativa di Confcommercio e Manageritalia – quello riassumibile nella tendenza contemporanea alla condivisione e alla partecipazione, la vecchia impresa fordista basata su una visione e gestione egocentrica non ha nulla da raccontare, nessuna risorsa per coinvolgere collaboratori, fornitori e clienti. L’impresa del futuro è invece quella che democratizza i processi gestionali, co-progetta e stimola questa preziosissima massa critica di talento collettivo verso la creazione di valore nelle reti globali”.

In altre parole le nuove piattaforme tecnologiche possono anche contribuire all’emersione dei talenti all’interno delle realtà aziendali. “Dal basso, dal bordo, il web 2.0, i social network, la generazione digitale stanno facilitando e imponendo nuove pratiche”, scrive Giuliano Favini, amministratore delegato di Logotel, nella prefazione di Weconomy, di Isaac Mao, il libro che teorizza questa evoluzione della struttura delle imprese, tendenza che è stata battezzata “sharismo”.

Tuttavia, perché le piattaforme di social network adottate all’interno dell’azienda possano dare davvero questi risultati positivi, occorre seguire una serie di regole. Secondo l’indagine della CFMT, i manager ritengono che innanzitutto occorra “raccontare chiaramente la promessa della piattaforma ai partecipanti” (69%), “garantire una radicale trasparenza sulle decisioni chiave e sui financial metrics” (58,8%) e “creare o eleggere una community governance board, così da orientare e revisionare le principali decisioni politiche e strategiche (45,9%).

“Co-operation” (52%) e Co-working (42%) sono i cardini, secondo i manager intervistati, dell'”impresa collaborativa”. Che promuove anche la “trasparenza dei criteri di valutazione dei risultati e delle professionalità” (58%), le assunzioni in base a criteri di merito professionale (41%) e la partecipazione al rischio abbastanza ampia (35%). Il 52% dei manager intervistati ha affermato anche di aver adottato strumenti di “formazione più coinvolgente e condivisa”, e di aver favorito la creatività collettiva (26%). La cooperazione vale anche all’esterno, verso le altre imprese: ha promosso network di questo tipo il 49,7% degli intervistati.

Percentuali troppo ottimistiche? In effetti in Italia, ammettono gli organizzatori del Weconomy Day, si parla pochissimo di queste nuove tendenze. E probabilmente la svolta impressa dall’uso dei social network in azienda sta muovendo ancora i primissimi passi. Tuttavia il CFMT, oltre ad avviare una riflessione su questo tema con la giornata del 24, intende promuovere un tour all’interno delle aziende italiane, per far conoscere “i nuovi strumenti collaborativi”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Il tag alla conquista del mondo intanto Facebook lo brevetta

“NON MI taggare che sono venuto male”, “Se mi tagghi non vale” e ancora “Ti vorrei taggare”, per indicare un certo gradimento dell’altro, o “Mi ha taggato la polizia”, ovvero ho ricevuto una multa. Voce del verbo – non ancora riconosciuto dal dizionario italiano – taggare che, assolutamente in voga nel linguaggio di giovani e meno giovani iscritti a Facebook, ora diventa pure un brevetto riconosciuto dall’US Patent and Trademark Office 1. Se è vero che ai tempi del social network lasciarsi è pure un po’ staggarsi  –  a molti è toccato almeno una volta togliere il tag dalla foto con l’ex fidanzata o con l’amica non più troppo cara – è vero anche che il riconoscimento dell’Uspto ufficializza un sistema diventato più di una moda. Con circa 100 milioni di immagini caricate  –  e taggate – ogni giorno su Facebook è questo uno degli ingredienti del successo del maggiore social network del web oltre che secondo sito più visitato subito dopo Google.

Tagging, così come viene descritto nella scheda del brevetto numero 7,945,653 registrato il 17 maggio 2011, è un sistema per contrassegnare contenuti digitali. Il metodo, che prevede la selezione di un media digitale e di una regione del media, può includere l’associazione di una persona o di un’entità all’interno della regione selezionata e l’invio di una notifica alla persona o all’entità citata nel tag. Più difficile da spiegare che da fare per la maggior parte degli utenti di Facebook che da ora in poi utilizzeranno un sistema inventato da Marck Zuckerberg, Aaroon Sitting e Scott Marlette ogni volta che, cliccando su un’immagine, su un video, su un file musicale o su un testo, assoceranno a quel contenuto un nome.

Ci sono voluti circa cinque anni, dal momento del deposito della richiesta di brevetto per il tagging, per far ottenere a mister Facebook, al product architect Sitting e all’ex ingegnere Marlette la paternità del sistema che prevede come ulteriore funzione associata alla notifica anche l’invio di contenuti pubblicitari. È inoltre di pochi giorni fa l’introduzione del tag anche per marchi, prodotti e personaggi famosi, così a chi vorrà identificare quella popolare bevanda immortalata nella foto della festa basterà collegare l’immagine alla fan page della bibita con il tagging.

Oltre all’aspetto economico dell’ultima vittoria di Zuckerberg e compagnia  –  solo alcune settimane fa sempre a Facebook veniva riconosciuta la paternità del sistema di regali virtuali  –  il brevetto garantisce un discreto controllo sulle altre piattaforme sociali che da ora in poi dovranno guardarsi bene dall’introdurre sistemi che possono anche solo ricordare il tagging. Che d’ora innanzi è made in Facebook.

Fonte: http://www.repubblica.it

Tutti i vizi e i segreti che internet sa di noi

A tradimento Expedia mi chiede se voglio andare in vacanza con l’ex fidanzata. Non lo dice proprio così, ma mi suggerisce il suo nome per il secondo biglietto d’aereo. Se lo ricorda da un vecchio acquisto, l’impertinente sito di viaggi. Lo stesso fa Amazon per la consegna dei libri. Se li hai fatti spedire a un indirizzo che non frequenti più, lui insiste. Persino il sito delle contravvenzioni del comune di Roma prova a inchiodarti al passato. Vado a controllare una multa e, accanto al verbale, ora hanno messo la foto dell’infrazione. In bianco e nero, sgranata, ma ineluttabile: sono proprio io in sella. Con la compagna di allora. Dio perdona, Internet no. Soprattutto non dimentica niente. Ci conosce meglio di una madre, di un amico, di uno psicanalista. Ed è in grado di mettere insieme così tante tessere di quel mosaico caotico che è la vita da ricostruirlo a un livello di dettaglio impensabile nell’èra Pre-Web. Così ho chiesto alla rete di scrivere la mia biografia, non per il suo trascurabile interesse, ma per quello enorme che a redigerla sia un algoritmo. Utilizzando fonti aperte, informazioni a disposizione di tutti. Avessi interpellato i Servizi segreti avrei ottenuto un ritratto meno vivido. Provare per credere.

Se fai il giornalista, in teoria, sei più esposto di un impiegato del catasto.

Ma non è detto, perché l’impiegato potrebbe avere una pirotecnica doppia vita telematica: condividere tutto su Facebook, commentare blog altrui, affidare a Twitter in tempo reale la propria opinione sull’universo mondo. Insomma, cose che io non faccio. Perché alla fine i pixel con cui la rete comporrà il nostro ritratto digitale, ad alta o a bassissima risoluzione, siamo noi a fornirglieli. Talvolta in maniera attiva, riempendo questionari, firmando petizioni, e così via. Più spesso in modo passivo, semplicemente navigando, comprando o essendo taggati in foto altrui. Per cominciare, dunque, c’è Google. Il grado zero è l’egosurfing, ovvero controllare ciò che in rete si dice di noi digitando «nome cognome». Nel mio caso escono 102 mila risultati, ma le quotazioni cambiano con i giorni. Ai primi posti una voce di Wikipedia in inglese che fino a qualche tempo fa sosteneva erroneamente che fossi il capo di Repubblica.it (approfitto per scusarmi col titolare). Verso il fondo spunta invece un messaggio che spedii il 27 maggio 1996 a un gruppo di discussione sulla pubblicità online. Per quel che ne sapevo allora era come attaccare un annuncio in una bacheca dell’università. Quel che ho imparato poi è che nessuno l’avrebbe mai rimosso e anzi sarebbe stato imbalsamato a futura memoria. Avessi chiesto istruzioni per confezionare una bomba sarebbe stato lo stesso.

Se poi, come me e altri 170 milioni di persone nel mondo, usate la posta di Gmail, le cose si complicano. Nel senso che tutto quello che scrivete potrà essere usato, pubblicitariamente parlando, contro di voi perché il sistema analizza i testi per accoppiarci pubblicità pertinenti. Dunque se dite a un amico che sarebbe bello trascorrere un finesettimana a Palermo aspettatevi, per dire, annunci su una suite scontata all’hotel Delle Palme. Per vedere come vi hanno etichettato c’è Google Ads Preferences. Di me il software ha capito che sono un maschio e tra gli interessi desunti dal mio comportamento online ci sono cinema, spartiti musicali, giornalismo. E in tv mi piacerebbero «crime stories e legal show» (nego l’addebito). Ma Google è ormai un mondo. Mette a disposizione un programma per scrivere, un calendario, un sistema di notifiche personalizzate e tanto altro. Gratis, o meglio, pagando in moneta di privacy. Lui ti offre un servizio, tu gli affidi la tua vita digitale. Ciò che scrivi, dove vai e quando, quello che ti interessa sapere. Così, seppure in forma anonima, il cyber-leviatano riutilizzerà quella messe di dati per recapitarti l’inserzione giusta. Sono andato a verificare nel Dashboard, la «scatola nera» di tutti i miei rapporti con il motore di ricerca. Ed è come guardarsi l’anima allo specchio. Dal momento che ho attivato anche la Cronologia, ovvero il registro storico di ogni ricerca eseguita, sanno esattamente cosa ho visto in questi anni. Il resoconto inizia alle 18.16 del 22 maggio 2007 e le parole chiave, credeteci o no, erano «nietzsche memoria troppo buona» (magari mi sono fatto suggestionare e volevo sancire con una citazione del filosofo l’aver attivato quella specie di panopticon volontario).

Ogni singola query è stata messa a verbale. Ci sono anche tutti gli indirizzi che ho cercato su Mappe. I video che ho guardato, dalla clip di The Ballad of John and Yoko all’ultimo disco dei Virginiana Miller. Per non dire di quelli che ho caricato su YouTube. Così come le foto che, tanto tempo fa, ho condiviso sugli album digitali Picasa. E i titoli che ho scaricato su Libri. Ce n’è già abbastanza per ricostruire la mia esistenza, avendo del gran tempo da perdere, minuto per minuto.

Per accedere al sancta sanctorum però bisogna possedere la parola chiave. Serve un hacker bravo o, banalmente, averla lasciata memorizzata nel pc. Tuttavia, anche limitandosi alle informazioni aperte i risultati sono stupefacenti. Se non avete familiarità con la sintassi dei motori di ricerca ci sono compagnie specializzate in web listening. Di solito lo fanno per le aziende, per capire che «reputazione» ha un marchio o un certo prodotto. Li ho sfidati a sguinzagliare i loro software specializzati perché portassero a casa i dati più succosi sul mio conto. Dopo meno di un giorno l’emiliana TheDotCompany mi ha recapitato un rapportino che sembra vergato da un funzionario della Digos. Contiene: luogo e data di nascita, numeri di telefono di lavoro e di casa, qualifica professionale esatta, il nome di mio padre e l’annotazione che «I genitori e il nipote vivono a Viareggio». Un’impeccabile biografia lavorativa e poi «Il sistema di correlazione di keyword e contenuti suggerisce orientamento politico Pd/Rifondazione Comunista e forti legami con il mondo sindacale», credo desunti dal fatto che ho scritto un libro sugli immigrati e l’ho presentato in varie feste dell’Unità. In parallelo anche Expert System di Modena, specialista nella tecnologia semantiche per la comprensione e l’analisi delle informazioni, era sulle mie tracce. In una decina di slide riassume le organizzazioni, le persone (vince il mio amico Raffaele Oriani, con 319 ricorrenze), le località, gli argomenti con cui ho più a che fare (Internet 206, immigrazione 150, editoria 137, etc.) e un’enoteca che frequento. I segugi milanesi della FreedataLabs ricavano addirittura profili psicologici dalle parole che uso. Dicono che solo il 6% appartiene a categorie emozionali e mi dipingono come uno molto «teso all’obiettivo», «curioso» ma anche «introverso», con venature di «tristezza». Così parlò lo strizzacervelli automatico.

Joel Stein, un collega di Time che ha fatto lo stesso esperimento, è stato più bravo nel rinvenire tracce economiche di sé. La Alliance Data, società di marketing digitale, sa che è un ebreo di 39 anni, con laurea e stipendio da oltre 125 mila dollari. Che ne spende in media 25 per ogni acquisto online ma il 10 ottobre 2010 ne ha sborsati 180 per biancheria intima. «Sono dati che in Italia sarebbe impossibile avere senza l’ordine di un magistrato» mi tranquillizza Andrea Santagata, numero due di Banzai, tra le più grandi web company nazionali, «perché abbiamo una legge sulla privacy molto più stringente. In ogni caso alla pubblicità non interessa sapere come ti chiami, ma conoscere il tuo profilo per mirare i messaggi». Tutto vero, e da tenere a mente per non finire arruolati nel già affollato partito delle teorie della cospirazione. Ma quanto detto sin qui lo è altrettanto. Anzi, non c’è stato neppure tempo di parlare di Last. fm che sa che musica ascolto (se ti piacciono i Wilco ti piaceranno anche i Golden Smog e The Autumn Defense). O di Ibs che, sapendo quali libri acquisto me ne consiglia altri, per proprietà transitiva: se David Foster Wallace, allora George Saunders. O di infinite altre destinazioni online che, per il solo fatto di aver interagito con loro, hanno creato dei dossier da cui inferire la mia personalità. È una tragedia? Neanche per sogno. Internet è l’invenzione più strepitosa e benemerita dell’ultimo secolo. Basta essere consapevoli e comportarsi di conseguenza. Per quanto riguarda infine la sconveniente insistenza di Expedia ho estirpato il cookie, il pezzetto di codice che ricordava al sito i miei viaggi precedenti. E adesso il computer non si impiccia più in cose che non lo riguardano.

Fonte: http://www.repubblica.it/

Fenomeno Foodspotting è il photo-network del cibo

Per chiunque ami la buona cucina, il primo impatto può indurre una potente salivazione, quasi al limite del pavloviano. Si avvia l’applicazione sullo smartphone, si preme un pulsante e dopo pochi secondi la piccola mappa su schermo si popola di foto. Tutte istantanee di cibo, in ogni sua forma. Primi piatti italiani, grigliate di carne, cucina orientale, street food, pizza. Molta pizza. Se il mondo fosse forchetta, canterebbe Cecco Angiolieri, questa sarebbe la sua pornografia. In realtà è solo l’ultima frontiera delle reti sociali.

Foodspotting 1, in inglese, significa più o meno “avvistare il cibo”. E il social network omonimo, dedicato ai proprietari di smartphone con la passione per la cucina, fa esattamente questo: permette di vedere il cibo. Ma soprattutto di fotografarlo, in qualsiasi ristorante, pizzeria, tavola calda o chiosco del globo, e di condividerlo online, pronto per essere votato, commentato e, in ultima analisi, salivato dagli altri utenti.

L’idea di Foodspotting non è dissimile da quella dei più recenti social network fotografici, come Instagram 2, Path 3 o Piczl. Ma se su Instagram si condividono foto artistiche, su Foodspotting il tema esclusivo è la gastronomia. L’applicazione, che ha appena festeggiato un anno di vita, è disponibile su iPhone e Android, ma presto sbarcherà anche su BlackBerry. Ad oggi, si appoggia su un database di oltre mezzo milione di foto, alimentato da una comunità di circa 800.000 utenti solo su iPhone. E dopo gli Stati Uniti, ha cominciato a diffondersi anche in Italia.
L’intuizione è di due ragazzi di San Francisco, Ted Grubb e Alexa Andrzejewski, che hanno costruito intorno al cibo una vera e propria esperienza sociale, sulla falsariga di quella di FourSquare e Gowalla, i social network dei luoghi. Ogni cibo può essere fotografato, geolocalizzato e votato, segnalandone la qualità con un’apposita coccarda. Accumulando segnalazioni di piatti è possibile guadagnare “distintivi” da esperto, da ostentare nel proprio profilo da gourmet. Il modo più veloce per assurgere alla fama è invece quello di creare una guida tematica, stilando il proprio elenco di cibi e ristoranti consigliati, che gli altri utenti potranno poi seguire (letteralmente) sulla mappa digitale. E il gotha dell’alta cucina sembra aver raccolto con gusto l’invito, se è vero che tra le guide più seguite ci sono già quelle di alcune famose riviste o di chef di fama internazionale. Perché la gastronomia, in fondo, è prima di tutto una questione di fedeltà.

Social netfork. Foodspotting, in realtà, è solo il primo esperimento di successo nel campo delle food-community fotografiche. Ma come per ogni nuovo fenomeno in crescita, i concorrenti non si sono fatti attendere. È il caso di Chewsy 4, un’applicazione per smartphone sviluppata nel tempo libero da un piccolo gruppo di dipendenti Microsoft, ma che già ha raccolto un discreta community di appassionati negli Stati Uniti. Anche in questo caso il cibo si fotografa e si condivide, ma a differenza di Foodspotting qui prevale l’approfondimento. In primo luogo, gli utenti sono invitati a scrivere recensioni più accurate, per non relegare la segnalazione all’invio di una foto. A ogni piatto, inoltre, è possibile assegnare un voto specifico (da uno a cinque cucchiai), esprimendo quindi anche giudizi negativi.

E la storia si ripete. Solo alcuni mesi fa, l’universo digitale aveva registrato il boom di Instagram, il social network della fotografia graziato da oltre un milione di iscritti dopo nemmeno tre mesi dal lancio. Un successo che aveva aperto il campo ad altri competitor, come l’ambizioso Path (una rete sociale volutamente ristretta agli amici più intimi), il discusso Color 5 (progettato per condividere le foto geograficamente) o il prossimo ZangZing. Ora tutto può essere replicato in chiave gastronomica. E gli smartphone, a quanto pare, stanno lasciando le strade per accomodarsi a tavola.

Fonte: http://www.repubblica.it

L’energia viene dalla voce Il cellulare si ricarica parlando

ROMA – La voce umana è energia. E ricaricare il telefonino semplicemente parlando potrebbe essere possibile già nel futuro prossimo, almeno secondo una squadra di ingegneri dell’Università sudcoreana di Sungkyunkwan a Seoul. “Abbiamo cercato di trasformare il suono in elettricità”, dice l’ingegnere Sang-Woo Kim al quotidiano inglese Telegraph. “La voce è una possibile fonte di energia, a cui non è mai stata data l’attenzione che merita”.

A rendere possibile la cosa è un nuovo tipo di batteria, in grado di trasformare le vibrazioni sonore in elettricità. Non solo la voce, quindi: il telefonino si potrebbe ricaricare anche lasciandolo in un ambiente rumoroso. Magari, tenendolo in tasca quando si viaggia su un mezzo pubblico. Più rumore c’è, meglio è, secondo i ricercatori. Una soluzione che potrebbe invitare ad urlare nel telefono per ricaricarlo.

Come funziona. Tutto sommato, non sembra un’idea complicata. Alla batteria è collegato un materiale fonoassorbente, che vibra e trasmette la vibrazione a filamenti di ossido di zinco. Questi rispondono alla vibrazione contraendosi ed espandendosi, producendo elettricità. Al momento esiste solo un prototipo della batteria, in grado di alimentare dispositivi a basso consumo. Ma le applicazioni commerciali e su più ampia scala potrebbero non essere così distanti.

Non solo parole. Ma l’intuizione di Sang-Woo Kim è una di quelle destinate a fiorire. Limitarsi a ricaricare i cellulari, quando una simile tecnologia potrebbe essere usata anche per i veicoli, i computer, l’illuminazione, insomma qualunque dispositivo alimentabile con una batteria? Dice l’ingegnere: “Se le autostrade fossero dotate di protezioni acustiche, potrebbero catturare il suono dei veicoli e permetterne la ricarica in marcia, al contempo diminuendo la rumorosità nell’ambiente”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Più internet mobile e boom di app “Viviamo una rivoluzione mobile”

MILANO – Digitiamo sempre più sms, chiamiamo di continuo e spendiamo molto più degli scorsi anni per collegaci alla rete con gli smartphone e scaricare le applicazioni. Il rapporto quasi simbiotico degli italiani con i cellulari non accenna a raffreddarsi, ma l’uso che facciamo di questo mezzo si sta evolvendo in fretta. A testimoniarlo sono gli ultimi numeri di uno studio realizzato dall’Osservatorio Mobile Internet della School of Management del Politecnico di Milano 1, che ha monitorato tutti i capitoli di spesa degli italiani quando si parla dell’uso del cellulare.

“Si è attivato un circolo virtuoso che ci induce a parlare di Mobile Revolution – spiega Andrea Rangone, Responsabile Osservatori ICT del Politecnico di Milano – Perché rivoluzionarie sono le peculiarità del mezzo che possono essere sfruttate, l’impatto che il Mobile avrà sul comportamento del consumatore e quello che avrà anche sulle imprese e sulle pubbliche amministrazioni”.

Lo studio dell’Osservatorio fotografa un settore in rapida evoluzione, che nel suo complesso di connessioni, contenuti e pubblicità vale ormai 1.121 milioni di euro in un mercato, quello delle telecomunicazioni mobili. da oltre 20 miliardi e mezzo di euro. Le connessioni e i contenuti hanno registrato una crescita del 7% dopo lo stop dell’anno scorso. Ma dietro questa cifra ci sono settori in rapido declino e altri che fanno ormai la parte del leone e che nei prossimi tempi incideranno sempre più nel mercato. Si parte dalle connessioni da cellulare, cresciute del 27% in un solo anno e per le quali gli italiani spendono più di mezzo miliardo di euro. La diffusione di dispositivi sempre più “web-centrici” ha fatto bene soprattutto ai contratti flat, sottoscritti ormai da quasi 4 navigatori mobili su 10 e in crescita del 43% rispetto al 2009.  Questa esplosione di nuove collegamenti porta a 11 milioni il numero degli italiani che va in rete dal cellulare, quasi la metà di coloro che si connettono dal pc di casa e dell’ufficio. Una connessione più breve e “ripetitiva” di quella tradizionale però, che dura in media mezz’ora al giorno e ripercorre sempre gli stessi siti.

L’altro grande settore in forte espansione non poteva che essere il mercato delle app: Appstore di Apple, Android market, Ovi Store di Nokia e GetJar sono solo alcuni dei più conosciuti “negozi” di programmi per cellulari, ma all’elenco si sono aggiunti di recente gli store degli operatori telefonici. Questo piccolo universo, che fino al 2008 attirava meno dell’1% della spesa per i contenuti mobili, ha registrato una crescita del 113% nell’ultimo anno e adesso vale il 9% della torta. Un valore però di gran lunga inferiore a quello generato dai contenuti “tradizionali” come le suonerie, i giochi e gli sms di dating che, suppure in calo da qualche anno, continuano ad attirare il 91% della spesa complessiva degli italiani.

“Nonostante il grande fermento di tutti gli attori del mercato per il boom degli smartphone venduti e delle Applicazioni sviluppate, le dinamiche di crescita si dimostrano forse più lente di quelle che qualcuno ipotizzava – commenta Filippo Renga, Responsabile della Ricerca Mobile Internet, Content & Apps – Si tratta di un mercato che necessita di tempo per trasformare gli enormi numeri riguardanti offerta e download in ricavi, sia pay che pubblicitari”.

Le sfide dei prossimi anni, su cui sono puntati gli occhi di tutti gli osservatori, sono la diffusione della rete ultraveloce mobile nel paese, la sempre maggior penetrazione degli smartphone tra i consumatori (settore in cui l’Italia è già all’avanguardia), la battaglia trai diversi sistemi operativi mobili e il ruolo delle piattaforme di pagamento mobile. La rivoluzione è appena cominciata.

Fonte: http://www.repubblica.it

Wi-Fi in tutte le scuole entro il 2012

E’ partita ieri alle 12 l’ operazione Wi-fi a scuola. Come sappiamo il progetto era stato presentato lo scorso 20 aprile e vedrà il suo completamento entro la fine del 2010. Nel frattempo si prevede che, nei prossimi sei mesi, 5.000 scuole saranno collegate a internet,in modalita’ Wi-fi, e che a fine 2012 lo saranno tutti i circa 14.000 istituti scolastici italiani.

Al momento si sono prenotate già 800 scuole per avere il kit Wi-fi  ha sottolineato il ministro Brunetta aggiungendo che il sogno e’ ‘dare il kit a tutti i bambini delle scuole elementari‘.

L’investimento che dovrà sostenere lo stato per l’operazione Wifi è di 5 milioni di euro per la prima fase. Seguirà un costo di altri 5 milioni di euro per l’anno prossimo con l’impegno del ministro Brunetta a incrementare le risorse anche attraverso la ricerca di sponsor.
Ogni impianto costa circa 1000 euro e l’introduzione del Wifi servirà ai docenti per la didattica, per l’utilizzo della lavagne interattive e anche per gli studenti.

Fonte: http://mobile.hdblog.it

Arriva SafeHouse, nuovo WikiLeaks

E stato appena lanciato un nuovo concorrente di WikiLeaks, si chiama SafeHouse e promette di pubblicare in maniera sicura e anonima corrispondenze, email, banche dati, riguardanti il lavoro del governo americano. SafeHouse, o meglio WSJleaks, è la prima delle alternative editoriali al modello più anarchico lanciato da Julian Assange. Lungi dal seguire puramente scopi etici, il progetto conta di guadagnare seguendo la scia del predecessore, con le informazioni raccolte dai tracker in giro per il mondo. Kevin Delaney, managing editor di WSJ.com ha spiegato che “il progetto è nato dopo varie discussioni tra i redattori. Abbiamo già varie fonti che ci forniscono documenti, sia cartacei che telematici, su temi politici internazionali. Il passo successivo era quello di creare una struttura che si occupasse solo di questo: ricevere e pubblicare tali documenti, rilevanti per l ‘ economia politica americana e internazionale.

Sebbene SafeHouse affermi di godere di un sistema interno di protezione dei documenti, sembra che la realtà dei fatti sia diversa. Qualche giorno fa l’esperto di sicurezza Jacob Appelbaum, si è scagliato contro SafeHouse su Twitter a poche ore dal lancio, denunciando numerose falle di sicurezza nel sistema centrale. In particolare la denuncia di Appelbaum si basava sul fatto che il sistema di protezione Web non sia realmente attivato sul sito di SafeHouse. Quando un utente va all’indirizzo, si offre un link alla versione protetta Https senza però usare un meccanismo chiamato Strict Transport Security che consente di passare ad una connessione cifrata. Qualunque hacker alle prime armi può usare strumenti per far credere ad un utente, che potenzialmente sta caricando documenti e informazioni rilevanti, di utilizzare la versione cifrata quando invece il traffico è completamente aperto. Un ulteriore critica riguarda il fatto che sul sito di SafeHouse si legge della possibilità di rivelare qualsiasi informazione sulle fonti alle autorità competenti, lasciando più di un dubbio sul perché un utente dovrebbe mettersi in pericolo in questo modo. La scelta di creare un modello basato su WikiLeaks da parte del WSJ sorprende se si considera che il giornale ha una delle posizioni più conservatrici e filo-governative degli Usa. Già in passato aveva rifiutato di pubblicare alcuni cables svelati da Assange che era stato bollato come un “nemico degli Stati Uniti”.

Il rischio, secondo opinionisti americani, è che lo strumento messo in azione dal WSJ possa diventare un mezzo per accontentare diverse parti. Prima di tutto i novelli investigatori della Rete che avranno la reale possibilità di inviare notizie scottanti sull’operato del governo, ma anche le stesse autorità di controllo che vedrebbero nella direzione del WSJ un potente alleato per rendere note solo alcune notizie, quelle meno compromettenti. A questo proposito, la reticenza del WSJ nei confronti della trasparenza potrebbe essere un punto a favore per coloro che desiderano ridurre al minimo i danni collaterali. Sembrerebbe che il mercato delle rivelazioni si stia spostando verso un campo più strettamente commerciale e decisamente orientato alla targetizzazione dello scoop. In ogni caso verso un nuovo capitolo del giornalismo post WikiLeaks.

Fonte: http://www.lastampa.it

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