Il Politecnico di Milano fa una fotografia dettagliata dei media italiani. Ecco come stanno cambiando tv, giornali e periodici al tempo di Facebook e dell’iPad. Il boom italiano dei “social media”
C’è chi ride e c’è chi piange. Ma soprattutto, c’è chi non sa se fare la prima o la seconda cosa. La fotografia scattata dal Politecnico di Milano ai media italiani è piena di promossi, bocciati e tanti rimandati che in futuro potrebbero però diventare la punta di diamante dell’intera classe. Rispetto all’anno precedente, periodo nero per i bilanci, nel 2010 torna il segno positivo e oltre allo strapotere della televisione in termini di introiti pubblicitari, anche il Web comincia a farsi sentire. Generando utili tali che, in prospettiva, potrebbero forse avere un ruolo non marginale. Infine i nuovi modelli di business tutti ancora da verificare, da Facebook alle “smart tv”, al mondo delle applicazioni, che per ora valgono pochi spiccioli ma sui quali in tanti stanno scommettendo..
Nel 2010 il mercato complessivo dei media, considerando sia la pubblicità sia i ricavi provenienti dai servizi a pagamento, cresce di circa tre punti percentuali (3,3%). Non è cosa da poco, se si tiene presente il crollo del 2009, pari a -10%. Stiamo parlando grosso modo di 17 miliardi di euro generati dalla tv (+5%), stampa (-4), radio (+12%), Internet (+13%), piattaforme mobili che includono ovviamente smartphone vari, iPad e concorrenti (+15%). I pesi però, inutile dirlo, sono differenti. Il settore
televisivo vale da solo il il 55%, quello della carta stampata il 34, segue poi il Web con appena il 6,5%, le radio con il 3 e la telefonia mobile con il 1,5%. “A ben guardare il mondo dei media in Italia ha ancora oggi una struttura antica”, sintetizza Andrea Rangone, che ha coordinato la ricerca del Politecnico. “E’ uno dei pochi settori che negli ultimi 20 anni è cambiato pochissimo. Ora però all’orizzonte si stanno affacciando dei mutamenti profondi che riguardano tutti senza distinzioni”.
La tv e le sue trasformazioni
Continua a dominare, anche se è in via di cambiamento. Il passaggio al digitale terrestre a fine anno ha riguardato il 64% della popolazione italiana. I soliti noti, Mediaset e Rai in primis, hanno occupato le frequenze digitali aumentando, o forse dovremmo dire duplicando, il numero di canali da 53 a 92. Cresce anche l’offerta di Sky sul satellitare che ha aggiunto 24 canali in più rispetto al 2009, siamo attualmente a 334, puntando sull’alta definizione. Ad oggi sono ben 36 canali in hd sul satellite contro i 7 che può vantare, per limiti di banda, il digitale terrestre. Buon per noi consumatori, che da questa competizione combattuta non solo sul fronte dell’offerta ma anche su quella dei prezzi degli abbonamenti e pay-per-view, abbiamo guadagnato. Tant’è che da una parte l’arricchimento dell’offerta contribuisce alla crescita della pubblicità sui canali digitali terresti e satellitari, siamo a un più più 26% (530 milioni di euro, pari al 14% della raccolta pubblicitaria), dall’altra la competizione sul prezzo tra Mediaset Premium e Sky genera una riduzione complessiva dei ricavi dei servizi a pagamento di quasi dieci punti percentuali.
Anche il piccolo schermo diventa “smart”
Il Politecnico di Milano le chiama “connected tv”, altri preferiscono il termine di “smart tv”, preso in prestito da quello dei cellulari alla iPhone (smartphone), visto che son due tipologie di apparecchi che cominciano a condividere diversi aspetti. Si tratta di televisioni e decoder che, potendosi collegare al Web, consentono di fruire contenuti multimediali provenienti a quel mondo. E’ un fenomeno nuovo, anzi forse il fenomeno tout court di questo 2011 per quel che riguarda il piccolo schermo. A fine 2010 erano circa 2.7 milioni le “connected tv” in Italia, ma solo una piccola parte, (meno del 10%) 180 mila, erano realmente collegate a Internet. Ora però si cominciano a vedere i primi modelli con wi-fi integrato e la nascita di negozi di applicazioni per televisori che dovrebbero rendere molto più immediata la fruizione via Rete dei tanti servizi che stanno nascendo. Non a caso sono fioriti anche i decoder esterni da collegare al televisore che fanno in pratica la stessa cosa. Da Apple Tv a TvBox di Tiscali, a Cubovision di Telecom Italia, a Hybrid BlobBox di Telesystem e in futuro a Google Tv. Secondo il Politecnico potrebbe diventare uno dei trend di maggiore interesse nei prossimi due o tre anni.
Il boom dei “social media” in Italia
“Sono quattro, a nostro avviso, i trend principali che hanno caratterizzato il mondo Internet nel 2010”, racconta Andrea Rangone. “Due all’insegna dell’evoluzione rispetto al 2009 e due completamente nuovi. I due trend di natura evolutiva sono la diffusione dei social network e la proliferazione dei contenuti video sui siti di informazione. Quelli nuovi invece sono la trasversalità del modello di business delle applicazioni, passa dai cellulari alle tv fino ai pc, e l’imporsi di una nuova tipologia di dispositivi come i’iPad”.
Partiamo dai social network o, come li chiama Rangone, dai “social media”. Sono oltre 21 milioni gli utenti registrati ad almeno un social network, pari ad oltre l’80% di tutti gli utenti Internet attivi italiani. Il ruolo dominante è svolto da Facebook che, a fine 2010, ha sfiorato i 18 milioni di utenti arrivando a coprire oltre il 90% dei giovani italiani tra 0 e 24 anni ed il 63% di quelli tra i 25 ed i 30 anni. Il tempo speso sui social media mensilmente dalle persone è di circa 7 ore, solo gli australiani da questo punto di vista ci superano. Ed è un settore che si sta spostando su piattaforma mobile: oltre 4 milioni gli Italiani accedono ai social network tramite smartphone.
“Sono due, a nostro avviso, i punti interrogativi che riguardano i social network”, puntualizza Andrea Rangone. “Il primo riguarda i ricavi, il secondo invece il ruolo svolto nei confronti degli altri media. Per quanto riguarda il primo punto, visto il modello essenzialmente basato sulla pubblicità, non si capisce bene la reale capacità di rendere interessante per gli investitori pubblicitari un ambiente dove i contenuti non sono controllabili (essendo user-generated).
Quell’universo parallelo chiamato Facebook
Un discorso a parte merita Facebook che va visto come un modo diverso di concepire Internet. Mondo complementare, se non alternativo, all’Internet marchiato Google. Il cuore è rappresentato infatti non più da un motore di ricerca, ma dalle relazioni sociali. “Proprio per questo Facebook sta diventando un ecosistema”, continua Rangone. “Ecosistema in cui trovano una loro collocazione tutti i mercati sviluppati negli ultimi 18 anni nel mondo Internet tradizionale: quello della pubblicità, dei contenuti digitali, dei giochi, dell’e-commerce e via discorrendo”. I ricavi quindi saranno diversificati e diversificabili, andando dagli introiti pubblicitari alla vendita di abbonamenti, di contenuti, di prodotti, servizi.
I social network stanno però modificando anche la fruizione stessa del Web, che in Italia a volte diventa sinonimo di Facebook. Dall’altro le discussioni e i confronti fra gli utenti su queste piattaforme contribuiscono a creare interesse per i temi proposti da altri media, come i siti di informazione, incrementandone l’utilizzo. “Difficile capire quale sia l’effetto preponderante di Facebook sui media tradizionali”, continua Rangone. “L’approccio di chi ha sviluppato progetti in questo ambito è stato al momento quello di “buttare il cuore al di là dell’ostacolo” credendo fortemente nel mezzo e nelle sue potenzialità, senza avere ancora la possibilità di misurare oggettivamente i risultati.
E Internet rischia di morire per mano degli app store
Il secondo fenomeno di natura evolutiva che ha caratterizzato il Web nel 2010 è la proliferazione dei Video che vengono utilizzati da qualsiasi editore presente online per arricchire la propria offerta. Gli utenti unici mensili che fruiscono in Italia di video online sono quasi 15 milioni, pari al 60% degli utenti Internet attivi. Nel 2010 si sono innescate anche due dinamiche completamente nuove: il lancio dell’iPad che “inventa” una nuova famiglia di terminali per l’accesso ai contenuti Internet, e la trasmigrazione dal mondo degli smartphone al mondo dei pc del concetto di Application Store. Questi due fenomeni, secondo il Politecnico di Milano, stanno portando ad un cambiamento del concetto stesso di Internet, che si allontana non poco da quello a cui siamo stati abituati fino ad oggi. Dando quindi ragione alle teorie di Chris Anderson, direttore di Wired, che quest’estate decreto la morte della Rete proprio per mano del crescente traffico legato ai negozi di applicazioni. Da noi gli editori hanno sviluppato 221 applicazioni diverse per smartphone e 126 per iPad legate a prodotti editoriali. Nel primo caso la parte del leone la fanno i periodici con il 44% delle applicazioni disponibili (ma sono solo il 4% dei periodici esistenti in edicola), seguiti dal 24% dei quotidiani (uno su due ha una sua applicazione), il 20% delle radio (presenti sugli app store nel 70% dei casi) e delle tv che sono ferme al 12% (8% delle emittenti italiane ha una sua app). A gennaio 2011, il 5% delle testate analizzate, quotidiani, periodici, canali tv e radio, ha un’applicazione appositamente dedicata su iPad. La maggior parte fa riferimento a testate cartacee visto che i tablet, stando al Politecnico, costituiscono una piattaforma particolarmente adatta all’esperienza di lettura di contenuti multimediali. In realtà nella maggior parte dei casi le applicazione prese in esame dalla ricerca si sono dimostrate una mera trasposizione su iPad della testata cartacea.
Il problema, sottolineano al Politecnico, è che i ricavi da questo mondo sono ancora ridicoli. “Bisogna però fare attenzione”, spiegano. “La forza degli app store non sta tanto nei numeri attuali, ma nel cambiare paradigma. Si passa da un mondo dove tutto è gratuito come quello del Web, a un mondo dove le persone sono molto più disposte a pagare per i contenuti. E questa è davvero una mezza rivoluzione.
Il dramma dei periodici sul Web
L’Osservatorio ha svolto una specifica ricerca sull’editoria periodica. E a sorpresa vin fuori che solo il 52% delle testate periodiche ha una presenza sulla Rete con un sito proprio o condiviso con più testate. Di queste il 63% è percepito come di basso valore dall’utente e, spesso, senza alcun reale modello di business. Dato sorprendente visto il calo degli introiti pubblicitari sulla carta stampata che dovrebbe spingere gli editori ad essere più dinamici su Internet. “Anche perché”, racconta Andrea Rangone, “attraverso la presenza online è possibile colmare il vuoto che intercorre fra l’uscita in edicola di un numero e la successiva, ed è possibile intercettare una nuova fascia di utenti differenziando i contenuti proposti rispetto all’edizione cartacea Infine, sul Web, è possibile gestire in modo più completo e strutturato il cliente che può essere conosciuto in modo molto più preciso”. Occorre però inventare un prodotto differente, adatto alla Rete, che attragga e stimoli gli utenti. E a quanto pare è proprio qui che cominciano i problemi. E questo ci porta all’ultima parte della ricerca, una serie di consigli da seguire in questi tempi digitali tanto burrascosi per gli editori.
I ricavi della stampa online
I ricavi generati dal mondo Internet pesano sul mercato media complessivo solo il 22%. Troppo poco per compensare la riduzione dei mezzi più tradizionali (stampa in particolare) e per consentire di ripagare adeguatamente gli investimenti di coloro che operano online (fatta eccezione per Google “piglia tutto”). La soluzione? Secondo il Politecnico bisogna puntare sia su un incremento dei ricavi da pubblicità, sia sulla generazione di nuovi ricavi da servizi/contenuti pay.
Nel primo caso sfruttando i nuovi device come smartphone, tablet e mondo delle applicazioni, e lavorando contemporaneamente sulla creazione di un ecosistema che non sia vittima degli attuali metodi di calcolo della pubblicità sull’online. Si tratta in pratica di far comprendere il reale valore di questi nuovi canali di comunicazione agli investitori guardando oltre gli strumenti di misurazione oggi adottati. E questo significa passare attraverso lo sviluppo di competenze specifiche all’interno degli attori storici del mercato della pubblicità che oggi esistono in maniera marginale.
Le cinque regole per non annegare nella Grande Rete di domani
La ricerca del Politecnico di Milano sui media in Italia si chiude con cinque regole per riuscire a ritagliarsi uno spazio nel mercato di domani. Eccole di seguito.
Rifuggire dalla “one best way” e dall’effetto moda. Non esistono strade uguali per tutti e, soprattutto, non esistono strade più o meno di moda. Oggi basta sentire parlare qualunque analista, “esperto” o provider, e sembra che la soluzione a qualsiasi problema in ambito digitale sia rappresentata dall’iPad e dalle Applicazioni. Una strategia orientata solo a cavalcare questi nuovi paradigmi – per quanto rivoluzionari e rilevanti – non basta certo a creare le basi per un successo duraturo e rilevante nei mercati digitali.
Cercare la propria identità digitale dentro sé stessi. Ogni organizzazione deve guardarsi all’interno, comprendere il proprio dna in termini di risorse e competenze (testate, posizionamento, capacità di produzione di contenuti, base utenti e via discorrendo.) e, coerentemente, inventare una propria strategia digitale, senza seguire necessariamente la strada percorsa da altri. Il mondo digitale mette in crisi l’identità “tradizionale” degli editori, che non possono più fare riferimento ai modelli di business del passato, ma non l’insieme di risorse e competenze chiave sviluppate.
Fonti di ricavi nascoste. Sui mercati digitali non esistono esclusivamente i clienti/utenti del mondo analogico tradizionale, le “solite” value proposition, le “solite” fonti di ricavo (pubblicità o vendita di contenuti premium). Nel mondo digitale i mercati possono essere riconfigurati, i confini delle aree di business cambiati, le filiere ridefinite, le strategie reinventate. Esistono casi estremamente interessanti di aziende che sono riuscite ad inventarsi nuove forme di ricavo legata all’offerta di servizi innovativi, prima, neppure lontanamente immaginabili nel mondo analogico.
Puntare su una strategia multicanale. È sempre più evidente che il mondo digitale si sta articolando su una molteplicità di differenti piattaforme, in parte correlate, ma con una forte identità specifica: smartphone, tablet, pc, tv, applicazioni, web, carta. Occorre puntare su una strategia che sappia abbracciarle tutte, con elementi trasversali, ma anche peculiarità verticali. Ma multicanalità significa anche sapere sfruttare i canali digitali per portare valore al canale offline tradizionale. Non sono pochi gli esempi di imprese che sono riuscite a incrementare le copie vendute in edicola con una oculata strategia digitale.
Costruire un’organizzazione flessibile e fondata sulla sperimentazione. In un contesto completamente nuovo come quello digitale, essendo impossibile prevedere le evoluzioni e le azioni migliori, occorre puntare su un’organizzazione capace di sperimentare velocemente, di apprendere dalle esperienze – e anche dai fallimenti – per mettere a punto in modo tempestivo e flessibile nuove strategie e azioni.
“In sintesi”, conclude Rangone, “possiamo riassumere tutti i punti sopra riportati in un’unica espressione: occorre un passaggio culturale da media company a “media entrepreneur”. Passaggio che presuppone un cambiamento culturale non da poco in organizzazioni spesso grandi e complesse non molto abili nel sapersi adattare”.
Fonte: http://www.repubblica.it