Un’idea semplice, costi pari a zero e tanta creatività. Questi i segreti di un gruppo di giovanissimi ragazzi di Toronto che in poco più di un anno hanno invaso Facebook con la divertentissima app ‘Bitstrips’ che permette di ‘raccontare’ la propria vita in un fumetto. Dieci milioni di utenti si sono già trasformati e ora parlano con amici e parenti grazie a nuvolette colorate. Appassionati destinati, di sicuro, a crescere in maniera vertiginosa visto il rilascio della app, in forma gratuita, per tutti gli utenti iPad e iPhone e dispositivi Android.
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La marcia dell’economia digitale passa anche per le vendite online e la pubblicità, riproposizione postmoderna del commercio e della sua vecchia anima. Dinamiche che s’insinuano in quella filiera della complessità e all’interno di quei percorsi condivisi che necessitano di essere raccontati in 140 caratteri (su Twitter) oppure ripostati (su Facebook), potente megafono del nostro e dell’altrui pensiero.
Dell’economia dei nuovi media, di marketing digitale, di editoria, nuove televisioni e cyber advertising si è parlato ieri al Forum Digital Media organizzato dal Sole 24 Ore, nel corso del quale è stata presentata una ricerca dedicata proprio ai consumatori digitali.
«Solo il 54% degli italiani è connesso a internet – ha spiegato Antonio Noto, numero uno di Ipr Marketing, che ha realizzato il report – e sono le donne e i giovani le categorie che in media passano più tempo sulla rete: 4 ore al giorno il 37% delle prime contro il 39% dei 18-34enni». Anche se il dato più interessante riguarda proprio l’ecommerce: nell’ultimo anno sul web hanno fatto acquisti online quasi 8 italiani su dieci e i prodotti preferiti sono quelli dell’editoria: libri, film, musica, seguiti da elettronica, informatica e abbigliamento.
E tutto avverrà sempre di più anche in mobilità, se è vero quello che ha detto Cesare Sironi, amministratore delegato di Matrix e head of innovation di Telecom Italia: «In tutto il mondo nel 2011 conteremo 4-5 miliardi di devices connessi, ma nel 2020 saranno probabilmente 50 miliardi. Tra questi rientrano anche le tv, che in tempi molto più brevi saranno tutte online».
La televisione, appunto. «Da questa stagione Mediaset ha messo a disposizione l’intero palinsesto – spiega Yves Confalonieri, direttore Rti interactive media – e non ha tolto nessun ascoltatore alla tv». Dello stesso avviso Andrea Portante, responsabile marketing di Rai nuovi media: «Non c’è alcuna cannibalizzazione tra le piattaforme».
E la pubblicità? Quest’anno l’advertising online arriverà a valere in Italia oltre un miliardo di euro sui 9,2 miliardi del mercato complessivo, ancora dominato per quasi il 60% dalla televisione. «Dal punto di vista pubblicitario nel futuro ci saranno tre internet – dice Luca Paglicci, a capo della Websystem, la concessionaria online del Sole 24 Ore – l’editoria online, il social networking e poi Google, ovvero la search. Il mondo dell’editoria non perda occasioni».
Ma per far decollare gli spot online «servirà trovare nuovi formati e non fermarsi al banner, i creativi in questo senso non hanno ancora dato il meglio di sè», sostiene Francesco Giromini di Bright.ly. Di pubblicità “social” ha parlato Luca Colombo, country manager per l’Italia di Facebook, che ha spiegato come sul “libro faccia” «le campagne possano prevedere anche budget limitatissimi pur essendo sempre più potenti».
Fonte: http://www.ilsole24ore.com
A tradimento Expedia mi chiede se voglio andare in vacanza con l’ex fidanzata. Non lo dice proprio così, ma mi suggerisce il suo nome per il secondo biglietto d’aereo. Se lo ricorda da un vecchio acquisto, l’impertinente sito di viaggi. Lo stesso fa Amazon per la consegna dei libri. Se li hai fatti spedire a un indirizzo che non frequenti più, lui insiste. Persino il sito delle contravvenzioni del comune di Roma prova a inchiodarti al passato. Vado a controllare una multa e, accanto al verbale, ora hanno messo la foto dell’infrazione. In bianco e nero, sgranata, ma ineluttabile: sono proprio io in sella. Con la compagna di allora. Dio perdona, Internet no. Soprattutto non dimentica niente. Ci conosce meglio di una madre, di un amico, di uno psicanalista. Ed è in grado di mettere insieme così tante tessere di quel mosaico caotico che è la vita da ricostruirlo a un livello di dettaglio impensabile nell’èra Pre-Web. Così ho chiesto alla rete di scrivere la mia biografia, non per il suo trascurabile interesse, ma per quello enorme che a redigerla sia un algoritmo. Utilizzando fonti aperte, informazioni a disposizione di tutti. Avessi interpellato i Servizi segreti avrei ottenuto un ritratto meno vivido. Provare per credere.
Se fai il giornalista, in teoria, sei più esposto di un impiegato del catasto.
Ma non è detto, perché l’impiegato potrebbe avere una pirotecnica doppia vita telematica: condividere tutto su Facebook, commentare blog altrui, affidare a Twitter in tempo reale la propria opinione sull’universo mondo. Insomma, cose che io non faccio. Perché alla fine i pixel con cui la rete comporrà il nostro ritratto digitale, ad alta o a bassissima risoluzione, siamo noi a fornirglieli. Talvolta in maniera attiva, riempendo questionari, firmando petizioni, e così via. Più spesso in modo passivo, semplicemente navigando, comprando o essendo taggati in foto altrui. Per cominciare, dunque, c’è Google. Il grado zero è l’egosurfing, ovvero controllare ciò che in rete si dice di noi digitando «nome cognome». Nel mio caso escono 102 mila risultati, ma le quotazioni cambiano con i giorni. Ai primi posti una voce di Wikipedia in inglese che fino a qualche tempo fa sosteneva erroneamente che fossi il capo di Repubblica.it (approfitto per scusarmi col titolare). Verso il fondo spunta invece un messaggio che spedii il 27 maggio 1996 a un gruppo di discussione sulla pubblicità online. Per quel che ne sapevo allora era come attaccare un annuncio in una bacheca dell’università. Quel che ho imparato poi è che nessuno l’avrebbe mai rimosso e anzi sarebbe stato imbalsamato a futura memoria. Avessi chiesto istruzioni per confezionare una bomba sarebbe stato lo stesso.
Se poi, come me e altri 170 milioni di persone nel mondo, usate la posta di Gmail, le cose si complicano. Nel senso che tutto quello che scrivete potrà essere usato, pubblicitariamente parlando, contro di voi perché il sistema analizza i testi per accoppiarci pubblicità pertinenti. Dunque se dite a un amico che sarebbe bello trascorrere un finesettimana a Palermo aspettatevi, per dire, annunci su una suite scontata all’hotel Delle Palme. Per vedere come vi hanno etichettato c’è Google Ads Preferences. Di me il software ha capito che sono un maschio e tra gli interessi desunti dal mio comportamento online ci sono cinema, spartiti musicali, giornalismo. E in tv mi piacerebbero «crime stories e legal show» (nego l’addebito). Ma Google è ormai un mondo. Mette a disposizione un programma per scrivere, un calendario, un sistema di notifiche personalizzate e tanto altro. Gratis, o meglio, pagando in moneta di privacy. Lui ti offre un servizio, tu gli affidi la tua vita digitale. Ciò che scrivi, dove vai e quando, quello che ti interessa sapere. Così, seppure in forma anonima, il cyber-leviatano riutilizzerà quella messe di dati per recapitarti l’inserzione giusta. Sono andato a verificare nel Dashboard, la «scatola nera» di tutti i miei rapporti con il motore di ricerca. Ed è come guardarsi l’anima allo specchio. Dal momento che ho attivato anche la Cronologia, ovvero il registro storico di ogni ricerca eseguita, sanno esattamente cosa ho visto in questi anni. Il resoconto inizia alle 18.16 del 22 maggio 2007 e le parole chiave, credeteci o no, erano «nietzsche memoria troppo buona» (magari mi sono fatto suggestionare e volevo sancire con una citazione del filosofo l’aver attivato quella specie di panopticon volontario).
Ogni singola query è stata messa a verbale. Ci sono anche tutti gli indirizzi che ho cercato su Mappe. I video che ho guardato, dalla clip di The Ballad of John and Yoko all’ultimo disco dei Virginiana Miller. Per non dire di quelli che ho caricato su YouTube. Così come le foto che, tanto tempo fa, ho condiviso sugli album digitali Picasa. E i titoli che ho scaricato su Libri. Ce n’è già abbastanza per ricostruire la mia esistenza, avendo del gran tempo da perdere, minuto per minuto.
Per accedere al sancta sanctorum però bisogna possedere la parola chiave. Serve un hacker bravo o, banalmente, averla lasciata memorizzata nel pc. Tuttavia, anche limitandosi alle informazioni aperte i risultati sono stupefacenti. Se non avete familiarità con la sintassi dei motori di ricerca ci sono compagnie specializzate in web listening. Di solito lo fanno per le aziende, per capire che «reputazione» ha un marchio o un certo prodotto. Li ho sfidati a sguinzagliare i loro software specializzati perché portassero a casa i dati più succosi sul mio conto. Dopo meno di un giorno l’emiliana TheDotCompany mi ha recapitato un rapportino che sembra vergato da un funzionario della Digos. Contiene: luogo e data di nascita, numeri di telefono di lavoro e di casa, qualifica professionale esatta, il nome di mio padre e l’annotazione che «I genitori e il nipote vivono a Viareggio». Un’impeccabile biografia lavorativa e poi «Il sistema di correlazione di keyword e contenuti suggerisce orientamento politico Pd/Rifondazione Comunista e forti legami con il mondo sindacale», credo desunti dal fatto che ho scritto un libro sugli immigrati e l’ho presentato in varie feste dell’Unità. In parallelo anche Expert System di Modena, specialista nella tecnologia semantiche per la comprensione e l’analisi delle informazioni, era sulle mie tracce. In una decina di slide riassume le organizzazioni, le persone (vince il mio amico Raffaele Oriani, con 319 ricorrenze), le località, gli argomenti con cui ho più a che fare (Internet 206, immigrazione 150, editoria 137, etc.) e un’enoteca che frequento. I segugi milanesi della FreedataLabs ricavano addirittura profili psicologici dalle parole che uso. Dicono che solo il 6% appartiene a categorie emozionali e mi dipingono come uno molto «teso all’obiettivo», «curioso» ma anche «introverso», con venature di «tristezza». Così parlò lo strizzacervelli automatico.
Joel Stein, un collega di Time che ha fatto lo stesso esperimento, è stato più bravo nel rinvenire tracce economiche di sé. La Alliance Data, società di marketing digitale, sa che è un ebreo di 39 anni, con laurea e stipendio da oltre 125 mila dollari. Che ne spende in media 25 per ogni acquisto online ma il 10 ottobre 2010 ne ha sborsati 180 per biancheria intima. «Sono dati che in Italia sarebbe impossibile avere senza l’ordine di un magistrato» mi tranquillizza Andrea Santagata, numero due di Banzai, tra le più grandi web company nazionali, «perché abbiamo una legge sulla privacy molto più stringente. In ogni caso alla pubblicità non interessa sapere come ti chiami, ma conoscere il tuo profilo per mirare i messaggi». Tutto vero, e da tenere a mente per non finire arruolati nel già affollato partito delle teorie della cospirazione. Ma quanto detto sin qui lo è altrettanto. Anzi, non c’è stato neppure tempo di parlare di Last. fm che sa che musica ascolto (se ti piacciono i Wilco ti piaceranno anche i Golden Smog e The Autumn Defense). O di Ibs che, sapendo quali libri acquisto me ne consiglia altri, per proprietà transitiva: se David Foster Wallace, allora George Saunders. O di infinite altre destinazioni online che, per il solo fatto di aver interagito con loro, hanno creato dei dossier da cui inferire la mia personalità. È una tragedia? Neanche per sogno. Internet è l’invenzione più strepitosa e benemerita dell’ultimo secolo. Basta essere consapevoli e comportarsi di conseguenza. Per quanto riguarda infine la sconveniente insistenza di Expedia ho estirpato il cookie, il pezzetto di codice che ricordava al sito i miei viaggi precedenti. E adesso il computer non si impiccia più in cose che non lo riguardano.
Fonte: http://www.repubblica.it/
Esattamente come è accaduto poco tempo prima nelle vicine nazioni di Tunisia ed Egitto, anche in Libia la gente è scesa in strada per contestare il regime al potere e, nello stesso modo, il regime ha deciso di mettere il silenziatore alla protesta impedendo ai propri cittadini l’accesso ad Internet.
Secondo i dati messi a disposizione da Google, durante lo scorso 19 Febbraio, il Web libico sarebbe stato completamente inattivo per un periodo di circa 7 ore, ciò è avvenuto esattamente in coincidenza con il periodo in cui le proteste sono state più violente.
Il governo della Libia retto dal colonnello Muammar Gheddafi non ha fornito alcuna spiegazione ufficiale del black-out, anche se le sue motivazioni risultano abbastanza palesi: decine di morti sulle piazze non sono certo da considerarsi una buona pubblicità per un regime, qualsiasi esso sia.
Basandosi sull’esperienza di Egitto e Tunisia, lo “spegnimento” della Rete non dovrebbe comunque essere sufficiente per mettere a tacere la protesta in atto, anzi, costituisce un’ulteriore violazione dei diritti civili che potrebbe contrbuire a esacerbare la volontà del popolo libico di ribellarsi.
Fonte: www.mrwebmaster.it
L’infrastruttura di Internet è in pericolo ed a giorni potrebbe accadere una vera e propria apocalisse.
A dare l’allarme nuovamente Vinton Cerf, uno dei padri del World Wide Web che si era espresso già nei mesi scorsi con dichiarazioni pesanti riguardo gli IPv4.
Gli indirizzi IP infatti starebbero per finire, ne restano meno di 30 milioni gli indirizzi disponibili e se si continuerà con questo ritmo la data precisa dell’apocalisse di Internet sarà le 4 del mattino del 2 febbraio di quest’anno.
La fine di Internet dovrebbe arrivare proprio per lo standard IPv4 ideato dallo stesso Cerf nel 1979: i numeri IP identificano un computer in Rete e utilizza 32 bit consentendo quindi 4,3 miliardi di combinazione possibili di numeri.
IPv4 ora appare largamento superato; per questo motivo già da giugno i giganti del Web dovrebbero convertirsi all’IPv6. IPv6 fornisce una chiave a 128bit e garantisce oltre un miliardo di quadriliardi di combinazioni. Provider ed operatori devono quindi adeguarsi al nuovo standard.
Nel mentre non ci sarà l’apocalisse o Ipcalypse, Internet continuerà a funzionare ma si estenderà più lentamente con macchine che condivideranno lo stesso IP: i due standard sono tra di loro incompatibili quindi bisognerà collegarsi a siti in IPv6 da una rete ad IPv6.
Secondo alcuni esperti però queste sono esagerazioni ed il passaggio a IPv6 sarà più soft e graduale.
Akamai ha pubblicato un nuovo rapporto sullo stato di Internet afferma che labanda larga globale è cresciuta da 1,8 Mbps a 2 Mbps. La Corea del Sud ha le connessioni broadband più veloci con 14 Mbps seguiti da Hong Kong, Giappone, Romania, Paesi Bassi, Lettonia, Repubblica Ceca e Svizzera.
Fonte: web20.excite.it
Se per il futuro i costruttori d’auto mondiali stanno investendo miliardi di dollari nella motorizzazione a basso consumo, le prossime innovazioni nel mercato delle automobili girano tutte intorno all’elettronica e all’interattività. La settimana scorsa a Las Vegas si è tenuto l’International Consumer Electronics Show (CES), una delle maggiori convention mondiali su tecnologia ed elettronica: quest’anno è stato invaso da 120mila delegati delle case automobilistiche, tutti col loro bel BlackBerry aziendale (la cosa ci interessa, ci arriviamo). Le attenzioni di tutti erano ovviamente puntate sulla presentazione dell’auto elettrica.
La presenza dell’auto elettrica al Ces, al Consumer electronic show, tempio della tecnologia, è il simbolo massimo di un cambiamento in atto di vasta portata: l’automobile a ioni di litio non appartiene più solo al vecchio mondo meccanico, ma fa parte di quel pianeta di silicio e software che ha trasformato il mondo negli ultimi anni del secolo scorso.
Le applicazioni di queste innovazioni al mercato automobilistico sono moltissime: i produttori di auto stanno puntando sulla dimestichezza delle generazioni più giovani con le nuove tecnologie per attrarre la loro attenzione e proporre prodotti molto interessanti. Si va dal sistema di ricarica ad induzione per dispositivi elettronici, su cui General Motors ha investito ben cinque milioni di dollari e che permetterà di ricaricare il cellulare in auto senza ricorrere a cavi e cavetti, al sistema di navigazione sviluppato da Nvidia per Tesla Motors, con schermone integrato da 17 pollici.
L’oggetto più interessante è prodotto sempre da General Motors. Si chiama OnStar, è sul mercato da qualche anno ed è di fatto l’erede dei normali navigatori satellitari ai quali ormai ci siamo abituati. Oltre alle mappe e alla navigazione via GPS, l’OnStar mette a disposizione del conducente molti altri servizi. C’è il servizio per il pronto soccorso: in caso di impatto del veicolo, il sistema comunica istantaneamente le proprie coordinate satellitari – rilevate col GPS – al luogo più vicino dal quale è possibile ricevere dei soccorsi. C’è il servizio per localizzare la macchina in caso di furto e quello per fare le telefonate in vivavoce. Ma il meglio è quello che si riesce a fare col sistema elettronico dell’auto. L’apparecchio di OnStar può diventare infatti uno specchietto retrovisore o laterale, può monitorare le prestazioni del veicolo – consumi, emissioni, pressione delle gomme, eccetera – in tempo reale e può permettere al proprietario dell’auto di compiere molte operazioni anche quando è da tutt’altra parte.
General Motors sta sviluppando infatti un’applicazione per smartphone che permetterà di bloccare le porte o accendere il motore a distanza. Se vi chiedete a che serva, immaginate di dover prendere un aereo: avete parcheggiato la macchina in fretta e a un certo punto non vi ricordate se l’avete chiusa o no. Dovunque voi siate potete aprire l’applicazione sul vostro smartphone, inserire il PIN e attivare la chiusura centralizzata. Oppure mettiamo che state tornando dalla spiaggia in una giornata di sole e volete trovare l’auto già fresca: aprite l’applicazione, inserite il PIN e fate partire l’aria condizionata (lo dicono quelli di GM, eh).
La connettività delle automobili a internet è terreno di grandi investimenti e molto marketing, non solo al CES. Google ha stretto un accordo con General Motors per far sì che il sistema OnStar sia basato sulle mappe di Google Maps. Da qui all’introduzione di un qualche collegamento con Facebook, MySpace e YouTube il passo è breve. Ovviamente, però, non si tratta di innovazioni a costo zero. Per prima cosa, infatti, serve un’infrastruttura capace di reggere il trasferimento di una robusta mole di informazioni. In un momento paradossale, i 120mila BlackBerry dei 120mila delegati presenti al CES hanno infatti intasato la rete: niente segnale, niente telefonate, niente email.
Poi c’è il problema delle distrazioni, sul quale probabilmente si catalizzeranno le critiche di molti osservatori. Accedere a Facebook dalla propria auto può essere divertente così come guardare un video su Youtube. Ma in auto le distrazioni possono essere fatali, e non è semplice isolare il conducente dai servizi che la sua macchina mette a disposizione per i passeggeri. Le case automobilistiche si trovano quindi di fronte alle necessità di sviluppare un minimo comune denominatore per evitare le distrazioni da applicazioni multimediali, ma sono al contempo chiamate a soddisfare le richieste dei consumatori, che vorrebbero fare quello che vogliono. La questione è ancora apertissima: di certo ci saranno grandi innovazioni, e grandi discussioni.
Fonte: www.ilpost.it
Da Google in Cina a Wikileaks, quest’anno la Rete ci ha riservato sorprese rivoluzionarie e si è rivelata capace di superare anche le censure
Il caso Google-Cina, l’affare Blackberry, i nuovi media che si affacciano all’orizzonte, i Paesi autoritari che annaspano vedendo svanire la loro capacità di fermare la valanga della Rete. Il 2010 è stato anche l’anno di Internet.
Per la prima volta nella storia, a difesa di Google minacciato in Cina, è scesa in campo l’amministrazione americana. Hacker cinesi avevano preso di mira le caselle di posta Gmail di alcuni dissidenti, un attacco che – si è poi scoperto leggendo i cablogrammi di Wikileaks – fu lanciato direttamente da Pechino. «In un mondo interconnesso, un attacco alla rete di una nazione è un attacco contro tutti noi», dichiarò il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, promettendo «serie conseguenze» per chi lancia attacchi informatici e «minaccia la libertà di espressione sul web».
Nel frattempo, a migliaia di chilometri di distanza, alcuni Paesi del Golfo, e non solo, tentavano di mettere sotto controllo la rete Blackberry. Anche in quel caso, a impensierire Arabia Saudita, Emirati Arabi, Libano, India e Indonesia era l’impossibilità di controllare i messaggi scambiati attraverso gli smartphone poichè transitano su server blindati in Canada. In alcuni casi, come in India, si è raggiunto un accordo secondo il quale le autorità giudiziarie, previa richiesta formale e in nome della sicurezza nazionale, possono accedere ai dati dei server installati ad hoc nei singoli Paesi.
Un capitolo a parte va dedicato all’Iran: le autorità della Repubblica islamica hanno fallito nel tentativo di censurare la rete. Esempio concreto è stata la “rivoluzione verde” del giugno del 2009, quando milioni di giovani scesero nelle strade per protestare contro la controversa rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. Quella rivoluzione è stata un’enorme vittoria anche per la Rete: il servizio di microblogging Twitter è diventato un ottimo strumento per comunicare, un sistema contro il quale la censura non ha potuto nulla, poichè per diffondere una notizia, un grido di aiuto, non serve, in quel caso, neppure una connessione Internet, ma è sufficiente un semplice sms.
L’anno si chiude con il caso Wikileaks. Indipendentemente dai contenuti rivelati attraverso la diffusione di cablogrammi e documenti riservati, è cruciale pensare al mezzo che è stato utilizzato: la Rete. Una rete sociale che fa parte di un nuovo sistema di comunicare e fare informazione, il cosiddetto web 3.0, attraverso strumenti che consentono una condivisione di notizie, in tutti i formati e in tempo reale. È sempre più difficile censurare la Rete, se non tentando di stringere i rubinetti della banda larga.
Ma anche in Cina, uno dei Paesi in cui il governo tenta di controllare ogni segnale sull’etere, si stanno aprendo grosse falle: gli internauti aumentano, cresce la fame di informazione e migliorano le tecnologie per aggirare i blocchi. Non è un caso se dopo la dura battaglia tra Google e il Dragone, si sia riusciti a raggiungere un accordo e a evitare che il colosso di Mountain View abbandonasse il Paese (una minaccia cui nessuno aveva creduto fino in fondo, se si pensa a un mercato da 384 milioni di internauti). Prima di raggiungere l’accordo, Google dimostrò a Pechino con un semplice “switch” (un dirottamento sui server a Hong Kong) di riuscire a rendere accessibili agli utenti in pochi secondi contenuti sensibili, come la strage di Piazza Tienanmen.
A poche settimane dalla fine del 2010, arriva poi l’elezione di Mark Zuckerberg a persona dell’anno della rivista Times. E la Rete ci consegna una foto: il fondatore di Facebook, felpa e jeans, passeggia in un enorme palazzo di Pechino accanto all’amministratore delegato di Baidu, il più grande motore di ricerca della Grande Muraglia. Forse nel 2011 ci saranno altre sorprese.
Fonte: www.lastampa.it
Oggi l’e-commerce puo’ essere considerato il primo mercato digitale in Italia. Dal 2001 al 2008 il suo valore e’ cresciuto con tassi a due cifre, seguito da una lieve frenata nel 2009 e da una sostanziale ripresa nel 2010, durante il quale ci si aspetta una crescita del 15% con un aumento del numero d’ordini effettuati e del valore medio dello scontrino. Questo e’ stato sicuramente supportato dalla crescita dei siti di vendite-evento online e dalle loro esclusive offerte proposte ogni giorno. Tra questi, vente-privee.com, pioniere e leader mondiale nel settore delle vendite-evento online con un fatturato previsto nel 2010 di 700 milioni di euro, piu’ di 11,5 milioni di membri in Europa e 7.200 nuove iscrizioni al giorno. Presente in Italia dal 2008, oggi conta piu’ di 560 mila iscritti, di cui 98 mila clienti e una media di 870 nuovi iscritti al giorno.Il successo di questo innovativo business model francese e’ riconosciuto a livello internazionale. Infatti, negli ultimi anni sono nati in tutto il mondo piu’ di 200 siti che si ispirano a vente-privee.com, i quali hanno favorito lo sviluppo di una nuova esperienza di shopping online. Ma chi si nasconde dietro questo fenomeno? Chi preferisce utilizzare internet per gli acquisti piuttosto che aggirarsi tra le strade metropolitane e le vie della moda? Per rispondere a queste domande venteprivee.com ha effettuato uno studio sui suoi membri, presentando un profilo tipo e definendone caratteristiche e peculiarita’.
La ricerca svolta sui clienti europei ha rilevato che, ad apprezzare e approfittare di questo innovativo sistema di fare shopping sono soprattutto le donne (68% rispetto a 32% di uomini), con eta’ media intorno ai 35 anni, lavoratrici e residenti in grandi centri urbani, sposate o conviventi. Si tratta di persone che amano fare shopping e che solitamente si connettono da casa, quando sono piu’ rilassati e hanno il tempo di dedicarsi alle vendite in corso e selezionare gli acquisti migliori.
Fonte: www.adnkronos.com
La diffusione delle tecnologie informatiche di base nelle imprese con almeno 10 addetti del settore industriale e dei servizi è ormai ampiamente consolidata.
A gennaio 2010 il 95,1% delle imprese ha dichiarato di utilizzare il computer e il 93,7% dispone di una connessione ad internet. L’impiego del computer coinvolge 4 addetti alle imprese su 10.
L’utilizzo di internet avviene tramite connessioni fisse in banda larga per l’83,1% delle imprese.
L’84% delle imprese si collega a internet tramite connessioni veloci fisse o mobili: queste ultime sono utilizzate dal 18,6% delle imprese.
La connessione mobile è caratterizzata da una maggiore presenza di connessioni veloci con tecnologia almeno di terza generazione (UMTS, CDMA2000, HSDPA) rispetto a quelle mobili non in banda larga (rispettivamente 18,6% e 11,6%).
Le tecnologie di collegamento a internet in banda larga sono presenti soprattutto tra le imprese con almeno 50 addetti (oltre il 92,9% adotta la connessione fissa a banda larga e l’86,7% quella DSL).
La connessione mobile interessa complessivamente circa il 23% delle imprese ed è fortemente influenzata sia dalla dimensione aziendale (la percentuale di utilizzo passa dal 19,9% delle imprese con meno di 50 addetti al 71,1% di quelle con oltre 249), sia dall’attività economica, come emerge dal confronto tra le telecomunicazioni (41,7%) e i servizi di ristorazione (8,6%).
Sempre a gennaio 2010 il 24,4% delle imprese utilizza la rete intranet ed il 17,3% reti extranet.
La connessione ad internet è largamente presente su tutto il territorio nazionale, con differenze contenute tra il 95% del Nord-ovest e il 91,4% del Mezzogiorno.
I sistemi operativi open source sono stati utilizzati dal 15,9% delle imprese, la firma digitale dal 23,6%.
L’86,6% delle imprese usufruisce della rete per accedere a servizi bancari o finanziari on-line, il 65,5% per acquisire informazioni sui mercati, il 55,3% per ottenere servizi e informazioni in formato digitale, il 50,9% per acquisire servizi post-vendita e, infine, il 22,6% per proporre progetti di formazione e istruzione online del personale.
Nel 2009 8 imprese su 10 hanno fatto ricorso a servizi offerti online dalla Pubblica Amministrazione.
Poco più di una impresa su tre effettua acquisti online ed il 5% è impegnato nelle vendite online.
A gennaio 2010 la presenza di un sito web coinvolge sei imprese su dieci, raggiungendo livelli del 69,8% nelle imprese dell’industria (senza le costruzioni) e l’80,7% in quelle del settore ICT.
Nel settore dei servizi non finanziari di particolare rilievo appare la presenza del sito web nelle imprese operanti nel settore dei servizi di alloggio e in quello delle agenzie di viaggio (rispettivamente 96,8% e 92,4%).
L’utilizzo delle reti intranet ha coinvolto il 21,3% delle piccole imprese, con quote crescenti all’aumentare della dimensione aziendale, fino a raggiungere il 74,4% nelle grandi unità.
Analogamente, l’utilizzo di reti extranet ha interessato il 15,1% delle piccole imprese e il 54,6% di quelle più grandi.
I sistemi operativi open source sono stati utilizzati dal 13,9% delle piccole e dal 49,3% delle grandi imprese, mentre la firma digitale, rispettivamente, dal 21,7 e dal 50%.
Il 29,4% delle imprese ha dichiarato di disporre di una politica di sicurezza ICT formalmente definita e con un programma di revisione regolare. Questa attività mostra un’elevata variabilità settoriale e dimensionale: le maggiori incidenze si rilevano nelle telecomunicazioni (89,4% delle imprese) e nelle grandi aziende (77,6%).
Tra i rischi rilevati e trattati nell’ambito della politica di sicurezza vi sono quelli legati alla distruzione e corruzione di dati a causa di un attacco o di un incidente inaspettato vengono considerati dalla maggior parte delle imprese (88,2%).
Seguono i rischi dovuti alla divulgazione di informazioni riservate a seguito di intrusioni, di attacchi come pharming, phishing o a seguito di un incidente (75,8%) e quelli di indisponibilità dei servizi ICT a seguito di un attacco derivante dall’esterno (56,7%).
In tutte le attività economiche considerate si rileva una netta prevalenza di incidenti avvenuti nel 2009 legati alla indisponibilità di servizi informatici o alla perdita o corruzione dei dati dovuti a guasti di hardware o software (16,3%), contro il 3,1% di incidenti legati a indisponibilità o distruzione dati per attacchi esterni, virus dolosi, accessi non autorizzati.
Meno dell’1% delle imprese indica di aver subito incidenti relativi alla sicurezza che hanno comportato la divulgazione di dati riservati a seguito di intrusioni o attacchi come pharming e phishing (0,8%) o di cause legate ai comportamenti dei propri dipendenti (0,6%).
Per sensibilizzare il proprio personale relativamente agli obblighi in materia di sicurezza informatica, sette imprese su dieci hanno dichiarato di utilizzare metodi quali la formazione obbligatoria, norme contrattuali legate al fenomeno, azioni di informazione diffusa (ad es. via Intranet, newsletter o documenti cartacei). Tra le procedure interne di sicurezza adottate dalle imprese, la più diffusa risulta l’autenticazione tramite l’utilizzo di password di tipo ‘forte’ (64%), seguita dal backup dei dati all’esterno (41,8%), la registrazione informatica delle attività per l’analisi degli incidenti relativi alla sicurezza (logging), l’autenticazione mediante componenti hardware (ad esempio, smart card) seguito a maggiore distanza dai metodi biometrici (rispettivamente 12,3 e 1,6%).
Analogamente, la diffusione di queste procedure risulta più intensa tra le imprese con almeno 250 addetti rispetto alle altre, con particolare riferimento alle procedure più sofisticate quali password forte e logging (rispettivamente 90,1 e 64,0% contro il 61,9 e il 15,2 delle imprese più piccole).
A gennaio 2010 il 63,2% delle imprese con almeno 10 addetti scambia elettronicamente informazioni con altre imprese in un formato che ne consente il trattamento automatico. Il 21,8% delle imprese condivide per via elettronica informazioni con clienti e fornitori sulla gestione della filiera produttiva.
La tipologia di informazioni maggiormente scambiata risulta quella legata alla ricezione di fatture elettroniche (54,4%), con elevate differenziazioni settoriali.
Le imprese attive nelle attività editoriali, immobiliari o negli altri servizi alle imprese (noleggio, ricerca, vigilanza e altri servizi delle divisioni).
A gennaio 2010 il 40,8% delle imprese con almeno 10 addetti condivide automaticamente per via elettronica, al proprio interno, le informazioni relative agli ordini di vendita ricevuti in qualsiasi forma e il 33,9% quelle relative agli ordini di acquisto trasmessi.
La maggior parte delle imprese mette in comune queste informazioni con la funzione aziendale connessa alla contabilità, seguono la funzione della produzione e di gestione dei livelli delle scorte e, nel caso delle vendite, quella della distribuzione.
Circa 3 imprese su 10 hanno dichiarato di adottare applicazioni software ERP (Enterprise Resource Planning) per la condivisione di informazioni con altre aree funzionali interne (quali contabilità, progettazione, produzione, marketing), ma si registrano anche diversificazioni legate sia all’attività economica, come nel caso delle telecomunicazioni (53,8%) e delle imprese nella fabbricazione di computer e prodotti di elettronica (46,6%), sia alla dimensione aziendale (si passa dal 18,4% delle imprese con 10-49 addetti al 67,9% di quelle con oltre 249 addetti).
Il 23,4% delle imprese utilizza applicazioni di gestione del front office con riferimento alla raccolta, condivisione e analisi delle informazioni ottenute sulla clientela (CRM, Customer Relationship Management). Livelli di utilizzo maggiore si registrano per le imprese del settore ICT (41,4%) e delle attività editoriali (49,3%).
Fonte: www.bitcity.it
Ofcom, l’ente regolatore delle telecomunicazioni inglesi, ha da poco rilasciato una corposa ricerca su tecnologie e comunicazioni, l’International Communications Market Report 2010 (che sostanzialmente però, vi avviso, in molte aree riporta dati del 2009).
E’ interessante enucleare dalle centinaia di pagine del report (417), liberamente scaricabile, qualche dato relativo all’Italia. Per pensare, per fare dibattito, per infilarlo nel prossimo Powerpoint a clienti o platee di convegni e barcamp. Da usare con cautela e secondo coscienza per non barare troppo con le statistiche…
L’Italia sarebbe il paese con la più alta penetrazione di questi device, con un 26% della popolazione in possesso (wow) anche se la crescita è rapida in tutta Europa.
In Italia si tratterebbe però molto spesso di smartphone di “fascia media o bassa” mentre la penetrazione di questi device di fascia alta da noi è più bassa.
Per capirci, in Italia il 76% degli smarphone rilevati era basato su Symbian e l’8% erano iPhone (a gennaio 2010… bisogna ora vedere l’effetto iPhone 4).
In attesa dell’ondata di piena di Android che potrebbe travolgere anche noi, con terminali sempre più performanti… come il succoso Nexus S. L’adozione di telefonini con funzionalità “avanzate” è al massimo in Italia.
Siamo però, a quanto pare, tra i campioni mondiali dell’SMS: l’83 degli user di cellulari dichiara di inviare messaggini contro, ad esempio, un 65% negli USA. Il 21% degli user di mobile lo usa per accedere a Internet almeno una volta a settimana (mi sembra tanto…) e anche qui c’è chi ci supera.
Poca roba, certo, ma sempre una crescita e non un crollo. Btw da capire quanto ad esempio contino fattori come cassa integrazione, disoccupazione… che regalano tempo libero non desiderato alle persone