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La nostra vita? Un fumetto grazie a ‘Bitstrips’

bitstrips_appUn’idea semplice, costi pari a zero e tanta creatività. Questi i segreti di un gruppo di giovanissimi ragazzi di Toronto che in poco più di un anno hanno invaso Facebook con la divertentissima app ‘Bitstrips’ che permette di ‘raccontare’ la propria vita in un fumetto. Dieci milioni di utenti si sono già trasformati e ora parlano con amici e parenti grazie a nuvolette colorate. Appassionati destinati, di sicuro, a crescere in maniera vertiginosa visto il rilascio della app, in forma gratuita, per tutti gli utenti iPad e iPhone e dispositivi Android.

Cinque tecnologie per cambiare il mondo. Quale tra queste ti sembra la più importante?

020113-470-3d_printerNegli ultimi anni diverse tecnologie – prima inesistenti o fuori dalla portata dei comuni cittadini – si sono affacciate o hanno guadagnato popolarità.

Si tratta di soluzioni nuove per problemi nuovi, create o reinventate per soddisfare i bisogni attuali, rivoluzionando il modo di affrontare certe sfide.

Ne presentiamo cinque, scelte tra quelle che paiono essere le più promettenti e in grado di svilupparsi ulteriormente. Grazie ad esse, alcuni problemi potrebbero diventare soltanto un ricordo del passato.

L’iPhone traccia gli utenti? La polemica esplode sul web

ROMA – Il caso l’ha aperto un articolo di O’Reilly, ed è di quelli che in pochi secondi fanno il giro del web. Secondo i ricercatori Alasdair Allan e Pete Warden, dalla versione 4 in poi il sistema operativo di iPhone e iPad (versione 3G) tiene traccia di posizioni e movimenti dell’utente, e i dati vengono salvati in un file nascosto che resiste alla formattazione degli apparecchi. I due hanno poi realizzato un’applicazione che permette di visualizzare graficamente questi dati su una mappa geografica. Scaricandola, un utente può vedere rappresentato sullo schermo ogni suo movimento negli ultimi mesi: una possibilità che sta sollevando più di quale perplessità sul fronte della privacy.

Siamo spiati? La polemica sulla possibilità che Apple sia in grado di raccogliere questi dati è esplosa subito. La privacy degli utenti è a rischio? Le informazioni sensibili vengono vendute a terze parti? Secondo i ricercatori di O’Reilly, Apple raccoglie questi dati e addirittura li ripristina su successivi backup dei dispositivi. Ma Alex Levinson, un terzo ricercatore esperto di gestione dati forense, smentisce i colleghi: Cupertino non raccoglie queste informazioni, e inoltre, il file incriminato non sarebbe nascosto nei meandri di iOs, ma non sarebbe neppure nuovo. Dice Levinson: “Il file esisteva già, anche se non in questa forma, e nelle ultime versioni del sistema operativo ne è stata modificata la posizione. Si tratta di un semplice “log”, un elenco di dati che servono all’iPhone per funzionare come gli si richiede e nulla più”.

Per una serie di ragioni, Apple “ha dovuto spostare il file”, e aggiunge Levinson: “Il file non solo non è segreto o trasmette informazioni. Ma soprattutto ogni utente deve preventivamente approvare l’accesso di un’applicazione alla sua posizione geografica, un consenso che può essere interrotto in qualsiasi momento dal pannello di controllo del dispositivo”.

E’ tutto nei termini di servizio.
In realtà, il vespaio sollevato dalla notizia è più consistente della rilevazione stessa. Nei termini di servizio che l’utente accetta quando attiva il suo iPhone, è scritto chiaramente che si conferisce ad Apple il diritto di raccogliere questo tipo di dati “in forma anonima e non ricollegabile alla persona fisica”. E gli elementi di geolocalizzazione sono tra l’altro anche a disposizione degli operatori telefonici da molto prima dell’avvento dell’iPhone. Senza considerare che difficilmente chi ruba un telefono si interessa a dove è stato il legittimo possessore in precedenza.
Inoltre, che il file in questione (si chiama consolidated.db) sia raggiungibile con un minimo di perizia tecnica, non pone più problemi che averlo nel computer, sincronizzato ogni volta che si connette lo smartphone o il tablet ad iTunes. Attraverso questo programma è però possibile crittografare il backup del dispositivo e mettere al sicuro i dati. Per chi invece avesse operato il “jailbreak” sul dispositivo (azione non illegale ma che invalida la garanzia), c’è l’utility Untrackerd, che si occupa di cancellare continuamente il file in questione.

Berlino: “Apple spieghi”. Il governo tedesco ha chiesto spiegazioni alla Apple sulla vicenda:
“Ci sono alcune questioni aperte che devono essere chiarite dalla Apple in collaborazione con l’autorità competente per la protezione dei dati” in Germania, ha detto il ministro per la Protezione dei consumatori, Ilse Aigner. La Apple, secondo il governo tedesco, deve rendere di dominio pubblico dove queste informazioni vengono memorizzate, per quanto tempo e a quale scopo. Inoltre, Berlino vuole sapere dal colosso californiano chi ha accesso a queste informazioni e quali sono i meccanismi di protezione che impediscono un eventuale accesso non autorizzato ai dati.

Garante per la privacy apre un’inchiesta. L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha deciso di aprire un’istruttoria sull’argomento. Il garante, che ha già da tempo avviato accertamenti sulle app per smartphone, ha deciso di allargare le verifiche anche a questo particolare caso e chiederà informazioni ad Apple, oltre ad avviare accertamenti tecnici. L’attività di indagine sarà condotta in collaborazione con altre Autorità europee per la privacy, che si sono già attivate nei confronti della società di Cupertino.

Fonte: http://www.repubblica.it

Spesa e bilanci pubblici “Mettiamo tutto sul web”

ROMA – Una spesa pubblica che da oggi diventa navigabile per tutti: regione per regione e per ogni singolo settore di spesa. I bilanci di tutti gli 8094 comuni italiani che in un futuro prossimo saranno consultabili online con i voti agli amministratori migliori e alle città più virtuose. E’ la rotta degli open data “all’italiana”: i dati pubblici liberi, prodotti o in possesso della pubblica amministrazione, che vengono condivisi per favorirne il riutilizzo senza restrizioni di alcun tipo.

Stati generali. La definizione un po’ didascalica giova a liberare il campo dai fraintendimenti: dai dati privati (quelli per intenderci ricavabili dai social network) o che arrivano per vie traverse (vedi Wikileaks). E i soggetti che si sono dati appuntamento per gli stati generali dei dati aperti nel nostro paese, nella giornata “La politica della trasparenza e dei dati aperti”, organizzata da “Agorà Digitale”, “Linked Open Data” e Radicali Italiani, alla precisione ci tengono.

Il progetto OpenSpending. La concretezza prima di tutto allora. Chi ha lavorato al progetto presentato oggi lo ha definito “un ponte verso il resto del mondo”. In realtà si tratta di un passo piccolo rapportato al panorama dei dati aperti nel resto del mondo (Usa e Regno Unito in testa, ma anche Australia e Canada), ma che lascia almeno intravedere le potenzialità degli strumenti di cui stiamo parlando. Si tratta del progetto Open Spending dell’Open Knowledge
Foundation, una piattaforma che mira rendere più semplice per il pubblico esplorare e comprendere i bilanci. A questo indirizzo 1 da oggi è in linea la visualizzazione nella spesa pubblica italiana negli anni che vanno dal 1996 al 2008.

Conti pubblici navigabili. I dati sono quelli dei Conti pubblici territoriali forniti dal Dipartimento del Tesoro. “L’utente”, spiega Stefano Costa (uno degli sviluppatori), può andare a confrontare il livello complessivo della spesa tra le diverse regioni, considerando amministrazione centrale e locale. La ripartizione minima è per anni e per settori e consente confronti cronologici”. In altre parole, ciascun cittadino può sapere quanto è stato speso nella propria regione durante un determinato anno per l’istruzione, la cultura o qualsiasi altro settore. “E’ chiaro”, continua Costa, “che con questi primi dati le operazioni possibili sono ancora limitate. Ma a breve prevediamo di riuscire a incrociare questo dataset con quelli dell’Unione Europea, già sulla piattaforma, soffermandoci, per esempio, sui finanziamenti che arrivano nei vari paesi. Insomma vedere chi dà i soldi e chi li riceve”. Quella possibilità di scoprire collegamenti e utilizzare i dati in modi inattesi che nel campo dei dati aperti si chiama “serendipity”.

Bilanci comunali aperti. L’altro progetto su cui la comunità open data punta molto è stato chiamato “Open Bilancio” ed è nato dalla collaborazione tra due soggetti attivi da tempo nel settore: “OpenPolis” (autore di OpenParlamento) e “Linked Open Data”. “Si tratta”, spiega Vittorio Alvino di OpenPolis, “di aprire i bilanci degli 8094 Comuni italiani dal 1998 ad oggi e di connetterli ad altri dati pubblici in modo da permettere un confronto tra singoli Comuni attraverso un filtro per singole voci di bilancio”. Le possibilità anche in questo caso sono illuminanti: “I dati di bilancio potrebbero essere messi a confronto”, continua Alvino, “con i responsabili politici e amministrativi (sindaci in primis), permettendo di stilare non solo una graduatoria della città ideale ma un rating di sindaci e amministrazioni, creando degli indicatori di efficienza”. I tempi del progetto in questo caso sono più lunghi: i primi dati dovrebbero essere disponibili entro la fine dell’anno.

Manca una politica organica. Ma qual è lo stato del movimento “open data” italiano? A detta degli stessi addetti ai lavori si vive un momento di “ebollizione”. Le molte iniziative che si sviluppano, spiegano un po’ tutti gli oratori, “vengono quasi tutte dal basso, da organizzazioni no profit. “Tranne rare e lodevoli eccezioni”, spiega Ernesto Belisario di “Open Government”, “non esiste una politica organica di open data in Italia. Ognuno fa il suo svincolo. Il carburante però manca, perché i dati spesso non ci sono”. Altra nota, a livello locale si registrano aperture maggiori rispetto alle resistenze che frenano il movimento soprattutto a livello centrale. Eppure i dati aperti avrebbero anche risvolti economici da non sottovalutare, se è vero, spiegano alcuni dei presenti, che il progetto Mepsir dell’Unione Europea, nel 2006 aveva quantificato in 27 miliardi di euro il valore del settore.

La vera trasparenza è lontana. A dispetto dell’interesse che arriva da soggetti istituzionali come l’Istat, che con il suo presidente, Enrico Giovannini, annuncia un nuovo sito internet come prototipo di una “statistica 2.0, con le persone al centro”, una vera trasparenza soprattutto nel settore della pubblica amministrazione sembra ancora lontana. Mentre il presidente dell’Autorità per la protezione dei Dati personali, Francesco Pizzetti pone l’accento sul rischio di violare i dati sensibili e il diritto all’oblio, sono le parole di Antonio Martone, presidente della Civit (la Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche) a restituire il quadro meno incoraggiante. “Gli strumenti normativi (la legge 15/2009 e il dlgs 150) darebbero già molti strumenti necessari”, spiega Martone, ma a un anno dall’insediamento della Commissione i problemi restano.

Problemi nostri e modelli virtuosi. L’applicazione della legge, ad esempio non è automatica per Regioni, province e Comuni, quindi ne risente la pubblicazione dei curricula e delle retribuzioni di chi ha incarichi di indirizzo politico amministrativo. A volte ammette Martone sembrerebbe “una battaglia contro i mulini a vento”, se è vero secondo i dati, da lui stesso comunicati, che solo “il 50% dei Ministeri e il 42% degli enti pubblici non economici nazionali si sono adeguati alle linee guida in materia di trasparenza”. Ci vuole tempo, è il messaggio della Commissione, che stima in 5 anni il tempo per avere dei risultati. Sarà anche così, ma quando al microfono si alternano Jonathan Gray, dell’Open Knowledge Fountation, Simon Rogers, responsabile del Datastore di The Guardian e Ben Brandzel, cofondatore di Avaaz.org 2, una banale ricevuta delle spese di Tony Blair dà il senso di tutta la strada che dovrà ancora fare il movimento dei dati aperti in Italia.

Fonte: http://www.repubblica.it

Il web cambia la pubblicità e anche la tv diventa “smart”

Il Politecnico di Milano fa una fotografia dettagliata dei media italiani. Ecco come stanno cambiando tv, giornali e periodici al tempo di Facebook e dell’iPad. Il boom italiano dei “social media”

C’è chi ride e c’è chi piange. Ma soprattutto, c’è chi non sa se fare la prima o la seconda cosa. La fotografia scattata dal Politecnico di Milano ai media italiani è piena di promossi, bocciati e tanti rimandati che in futuro potrebbero però diventare la punta di diamante dell’intera classe. Rispetto all’anno precedente, periodo nero per i bilanci, nel 2010 torna il segno positivo e oltre allo strapotere della televisione in termini di introiti pubblicitari, anche il Web comincia a farsi sentire. Generando utili tali che, in prospettiva, potrebbero forse avere un ruolo non marginale. Infine i nuovi modelli di business tutti ancora da verificare, da Facebook alle “smart tv”, al mondo delle applicazioni, che per ora valgono pochi spiccioli ma sui quali in tanti stanno scommettendo..
Nel 2010 il mercato complessivo dei media, considerando sia la pubblicità sia i ricavi provenienti dai servizi a pagamento, cresce di circa tre punti percentuali (3,3%). Non è cosa da poco, se si tiene presente il crollo del 2009, pari a -10%. Stiamo parlando grosso modo di 17 miliardi di euro generati dalla tv (+5%), stampa (-4), radio (+12%), Internet (+13%), piattaforme mobili che includono ovviamente smartphone vari, iPad e concorrenti (+15%).  I pesi però, inutile dirlo, sono differenti. Il settore
televisivo vale da solo il il 55%, quello della carta stampata il 34, segue poi il Web con appena il 6,5%, le radio con il 3 e la telefonia mobile con il 1,5%. “A ben guardare il mondo dei media in Italia ha ancora oggi una struttura antica”, sintetizza Andrea Rangone, che ha coordinato la ricerca del Politecnico. “E’ uno dei pochi settori che negli ultimi 20 anni è cambiato pochissimo. Ora però all’orizzonte si stanno affacciando dei mutamenti profondi che riguardano tutti senza distinzioni”.

La tv e le sue trasformazioni
Continua a dominare, anche se è in via di cambiamento. Il passaggio al digitale terrestre a fine anno ha riguardato il 64% della popolazione italiana. I soliti noti, Mediaset e Rai in primis, hanno occupato le frequenze digitali aumentando, o forse dovremmo dire duplicando, il numero di canali da 53 a 92. Cresce anche l’offerta di Sky sul satellitare che ha aggiunto 24 canali in più rispetto al 2009, siamo attualmente a 334, puntando sull’alta definizione. Ad oggi sono ben 36 canali in hd sul satellite contro i 7 che può vantare, per limiti di banda, il digitale terrestre. Buon per noi consumatori, che da questa competizione combattuta non solo sul fronte dell’offerta ma anche su quella dei prezzi degli abbonamenti e pay-per-view, abbiamo guadagnato. Tant’è che da una parte l’arricchimento dell’offerta contribuisce alla crescita della pubblicità sui canali digitali terresti e satellitari, siamo a un più più 26% (530 milioni di euro, pari al 14% della raccolta pubblicitaria), dall’altra la competizione sul prezzo tra Mediaset Premium e Sky genera una riduzione complessiva dei ricavi dei servizi a pagamento di quasi dieci punti percentuali.

Anche il piccolo schermo diventa “smart”
Il Politecnico di Milano le chiama “connected tv”, altri preferiscono il termine di “smart tv”, preso in prestito da quello dei cellulari alla iPhone (smartphone), visto che son due tipologie di apparecchi che cominciano a condividere diversi aspetti. Si tratta di televisioni e decoder che, potendosi collegare al Web, consentono di fruire contenuti multimediali provenienti a quel mondo. E’ un fenomeno nuovo, anzi forse il fenomeno tout court di questo 2011 per quel che riguarda il piccolo schermo. A fine 2010 erano circa 2.7 milioni le “connected tv” in Italia, ma solo una piccola parte, (meno del 10%) 180 mila, erano realmente collegate a Internet. Ora però si cominciano a vedere i primi modelli con wi-fi integrato e la nascita di negozi di applicazioni per televisori che dovrebbero rendere molto più immediata la fruizione via Rete dei tanti servizi che stanno nascendo. Non a caso sono fioriti anche i decoder esterni da collegare al televisore che fanno in pratica la stessa cosa. Da Apple Tv a TvBox di Tiscali, a Cubovision di Telecom Italia, a Hybrid BlobBox di Telesystem e in futuro a Google Tv. Secondo il Politecnico potrebbe diventare uno dei trend di maggiore interesse nei prossimi due o tre anni.

Il boom dei “social media” in Italia
“Sono quattro, a nostro avviso, i trend principali che hanno caratterizzato il mondo Internet nel 2010”, racconta Andrea Rangone. “Due all’insegna dell’evoluzione rispetto al 2009 e due completamente nuovi. I due trend di natura evolutiva sono la diffusione dei social network e la proliferazione dei contenuti video sui siti di informazione. Quelli nuovi invece sono la trasversalità del modello di business delle applicazioni, passa dai cellulari alle tv fino ai pc, e l’imporsi di una nuova tipologia di dispositivi come i’iPad”.

Partiamo dai social network o, come li chiama Rangone, dai “social media”. Sono oltre 21 milioni gli utenti registrati ad almeno un social network, pari ad oltre l’80% di tutti gli utenti Internet attivi italiani. Il ruolo dominante è svolto da Facebook che, a fine 2010, ha sfiorato i 18 milioni di utenti arrivando a coprire oltre il 90% dei giovani italiani tra 0 e 24 anni ed il 63% di quelli tra i 25 ed i 30 anni. Il tempo speso sui social media mensilmente dalle persone è di circa 7 ore, solo gli australiani da questo punto di vista ci superano. Ed è un settore che si sta spostando su piattaforma mobile: oltre 4 milioni gli Italiani accedono ai social network tramite smartphone.

“Sono due, a nostro avviso, i punti interrogativi che riguardano i social network”, puntualizza Andrea Rangone. “Il primo riguarda i ricavi, il secondo invece il ruolo svolto nei confronti degli altri media. Per quanto riguarda il primo punto, visto il modello essenzialmente basato sulla pubblicità, non si capisce bene la reale capacità di rendere interessante per gli investitori pubblicitari un ambiente dove i contenuti non sono controllabili (essendo user-generated).

Quell’universo parallelo chiamato Facebook
Un discorso a parte merita Facebook che va visto come un modo diverso di concepire Internet. Mondo complementare, se non alternativo, all’Internet marchiato Google. Il cuore è rappresentato infatti non più da un motore di ricerca, ma dalle relazioni sociali. “Proprio per questo Facebook sta diventando un ecosistema”, continua Rangone. “Ecosistema in cui trovano una loro collocazione tutti i mercati sviluppati negli ultimi 18 anni nel mondo Internet tradizionale: quello della pubblicità, dei contenuti digitali, dei giochi, dell’e-commerce e via discorrendo”. I ricavi quindi saranno diversificati e diversificabili, andando dagli introiti pubblicitari alla vendita di abbonamenti, di contenuti, di prodotti, servizi.

I social network stanno però modificando anche la fruizione stessa del Web, che in Italia a volte diventa sinonimo di Facebook. Dall’altro le discussioni e i confronti fra gli utenti su queste piattaforme contribuiscono a creare interesse per i temi proposti da altri media, come i siti di informazione, incrementandone l’utilizzo. “Difficile capire quale sia l’effetto preponderante di Facebook sui media tradizionali”, continua Rangone. “L’approccio di chi ha sviluppato progetti in questo ambito è stato al momento quello di “buttare il cuore al di là dell’ostacolo” credendo fortemente nel mezzo e nelle sue potenzialità, senza avere ancora la possibilità di misurare oggettivamente i risultati.

E Internet rischia di morire per mano degli app store
Il secondo fenomeno di natura evolutiva che ha caratterizzato il Web nel 2010 è la proliferazione dei Video che vengono utilizzati da qualsiasi editore presente online per arricchire la propria offerta. Gli utenti unici mensili che fruiscono in Italia di video online sono quasi 15 milioni, pari al 60% degli utenti Internet attivi. Nel 2010 si sono innescate anche due dinamiche completamente nuove: il lancio dell’iPad che “inventa” una nuova famiglia di terminali per l’accesso ai contenuti Internet, e la trasmigrazione dal mondo degli smartphone al mondo dei pc del concetto di Application Store. Questi due fenomeni, secondo il Politecnico di Milano, stanno portando ad un cambiamento del concetto stesso di Internet, che si allontana non poco da quello a cui siamo stati abituati fino ad oggi. Dando quindi ragione alle teorie di Chris Anderson, direttore di Wired, che quest’estate decreto la morte della Rete proprio per mano del crescente traffico legato ai negozi di applicazioni. Da noi gli editori hanno sviluppato 221 applicazioni diverse per smartphone e 126 per iPad legate a prodotti editoriali. Nel primo caso la parte del leone la fanno i periodici con il 44% delle applicazioni disponibili (ma sono solo il 4% dei periodici esistenti in edicola), seguiti dal 24% dei quotidiani (uno su due ha una sua applicazione), il 20% delle radio (presenti sugli app store nel 70% dei casi) e delle tv che sono ferme al 12% (8% delle emittenti italiane ha una sua app). A gennaio 2011, il 5% delle testate analizzate, quotidiani, periodici, canali tv e radio, ha un’applicazione appositamente dedicata su iPad. La maggior parte fa riferimento a testate cartacee visto che i tablet, stando al Politecnico, costituiscono una piattaforma particolarmente adatta all’esperienza di lettura di contenuti multimediali. In realtà nella maggior parte dei casi le applicazione prese in esame dalla ricerca si sono dimostrate una mera trasposizione su iPad della testata cartacea.

Il problema, sottolineano al Politecnico, è che i ricavi da questo mondo sono ancora ridicoli. “Bisogna però fare attenzione”, spiegano. “La forza degli app store non sta tanto nei numeri attuali, ma nel cambiare paradigma. Si passa da un mondo dove tutto è gratuito come quello del Web, a un mondo dove le persone sono molto più disposte a pagare per i contenuti. E questa è davvero una mezza rivoluzione.

Il dramma dei periodici sul Web
L’Osservatorio ha svolto una specifica ricerca sull’editoria periodica. E a sorpresa vin fuori che solo il 52% delle testate periodiche ha una presenza sulla Rete con un sito proprio o condiviso con più testate. Di queste il 63% è percepito come di basso valore dall’utente e, spesso, senza alcun reale modello di business. Dato sorprendente visto il calo degli introiti pubblicitari sulla carta stampata che dovrebbe spingere gli editori ad essere più dinamici su Internet. “Anche perché”, racconta Andrea Rangone, “attraverso la presenza online è possibile colmare il vuoto che intercorre fra l’uscita in edicola di un numero e la successiva, ed è possibile intercettare una nuova fascia di utenti differenziando i contenuti proposti rispetto all’edizione cartacea Infine, sul Web, è possibile gestire in modo più completo e strutturato il cliente che può essere conosciuto in modo molto più preciso”. Occorre però inventare un prodotto differente, adatto alla Rete, che attragga e stimoli gli utenti. E a quanto pare è proprio qui che cominciano i problemi. E questo ci porta all’ultima parte della ricerca, una serie di consigli da seguire in questi tempi digitali tanto burrascosi per gli editori.

I ricavi della stampa online
I ricavi generati dal mondo Internet pesano sul mercato media complessivo solo il 22%. Troppo poco per compensare la riduzione dei mezzi più tradizionali (stampa in particolare) e per consentire di ripagare adeguatamente gli investimenti di coloro che operano online (fatta eccezione per Google “piglia tutto”).  La soluzione? Secondo il Politecnico bisogna puntare sia su un incremento dei ricavi da pubblicità, sia sulla generazione di nuovi ricavi da servizi/contenuti pay.

Nel primo caso sfruttando i nuovi device come smartphone, tablet e mondo delle applicazioni, e lavorando contemporaneamente sulla creazione di un ecosistema che non sia vittima degli attuali metodi di calcolo della pubblicità sull’online. Si tratta in pratica di far comprendere il reale valore di questi nuovi canali di comunicazione agli investitori guardando oltre gli strumenti di misurazione oggi adottati. E questo significa passare attraverso lo sviluppo di competenze specifiche all’interno degli attori storici del mercato della pubblicità che oggi esistono in maniera marginale.

Le cinque regole per non annegare nella Grande Rete di domani
La ricerca del Politecnico di Milano sui media in Italia si chiude con cinque regole per riuscire a ritagliarsi uno spazio nel mercato di domani. Eccole di seguito.

Rifuggire dalla “one best way” e dall’effetto moda. Non esistono strade uguali per tutti e, soprattutto, non esistono strade più o meno di moda. Oggi basta sentire parlare qualunque analista, “esperto” o provider, e sembra che la soluzione a qualsiasi problema in ambito digitale sia rappresentata dall’iPad e dalle Applicazioni. Una strategia orientata solo a cavalcare questi nuovi paradigmi  –  per quanto rivoluzionari e rilevanti  –  non basta certo a creare le basi per un successo duraturo e rilevante nei mercati digitali.

Cercare la propria identità digitale dentro sé stessi. Ogni organizzazione deve guardarsi all’interno, comprendere il proprio dna in termini di risorse e competenze (testate, posizionamento, capacità di produzione di contenuti, base utenti e via discorrendo.) e, coerentemente, inventare una propria strategia digitale, senza seguire necessariamente la strada percorsa da altri. Il mondo digitale mette in crisi l’identità “tradizionale” degli editori, che non possono più fare riferimento ai modelli di business del passato, ma non l’insieme di risorse e competenze chiave sviluppate.

Fonti di ricavi nascoste. Sui mercati digitali non esistono esclusivamente i clienti/utenti del mondo analogico tradizionale, le “solite” value proposition, le “solite” fonti di ricavo (pubblicità o vendita di contenuti premium). Nel mondo digitale i mercati possono essere riconfigurati, i confini delle aree di business cambiati, le filiere ridefinite, le strategie reinventate. Esistono casi estremamente interessanti di aziende che sono riuscite ad inventarsi nuove forme di ricavo legata all’offerta di servizi innovativi, prima, neppure lontanamente immaginabili nel mondo analogico.

Puntare su una strategia multicanale. È sempre più evidente che il mondo digitale si sta articolando su una molteplicità di differenti piattaforme, in parte correlate, ma con una forte identità specifica: smartphone, tablet, pc, tv, applicazioni, web, carta. Occorre puntare su una strategia che sappia abbracciarle tutte, con elementi trasversali, ma anche peculiarità verticali. Ma multicanalità significa anche sapere sfruttare i canali digitali per portare valore al canale offline tradizionale. Non sono pochi gli esempi di imprese che sono riuscite a incrementare le copie vendute in edicola con una oculata strategia digitale.

Costruire un’organizzazione flessibile e fondata sulla sperimentazione. In un contesto completamente nuovo come quello digitale, essendo impossibile prevedere le evoluzioni e le azioni migliori, occorre puntare su un’organizzazione capace di sperimentare velocemente, di apprendere dalle esperienze  –  e anche dai fallimenti  –  per mettere a punto in modo tempestivo e flessibile nuove strategie e azioni.

“In sintesi”, conclude Rangone, “possiamo riassumere tutti i punti sopra riportati in un’unica espressione: occorre un passaggio culturale da media company a “media entrepreneur”. Passaggio che presuppone un cambiamento culturale non da poco in organizzazioni spesso grandi e complesse non molto abili nel sapersi adattare”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Informazione e media, tv regina ma il web corre

La televisione regina dell’informazione, il Web in crescita. Sono in estrema i sintesi i risultati di uno studio a cura dell’Università di Urbino Carlo Bo. Il canale televisivo come fonte di informazione fa infatti registrare il 90,8% delle preferenze del campione, seguono poi la stampa nazionale (63%), le radio (56,6%) e Internet (51,1%). La televisione svetta in cima alle preferenze e il Web è ancora il fanalino di coda, ma in crescita, specialmente perché man mano riguarda una fascia sempre più ampia di popolazione, interessando l’88,8% delle persone tra i 18 e i 29 anni e il 65,7% degli adulti tra i 30 e i 49 anni. Il mezzo è poi meno rappresentativo per le altre fasce d’età: 45,6% dai 40 ai 65 e 13,3% per i più anziani, gli over 65. La fruizione dell’informazione non rimane però legata a un solo mezzo o confinata a una scelta netta tra online e offline. Il 50,5% del campione, infatti, dichiara di fare uso sia di fonti in Rete sia di tipo tradizionale. Dai dati risulta del resto piuttosto evidente che ognuno si compone la propria dieta mediatica appoggiandosi anche a mezzi diversi. Il 96% degli intervistati sostiene di utilizzare più di due media, mentre il 48,7% cinque o più. Al di là delle preferenze sul mezzo di informazione o sulle più frequenti combinazioni delle diete mediatiche degli intervistati, preoccupa un dato rilevato già anche da altri studi: il campione mostra una fiducia del tutto relativa nell’informazione in generale. Più del 70% è convinto che i media, nuovi o tradizionali indifferentemente, manipolino le notizie, omettendone volutamente una parte ed essendo schierati politicamente.

Fonte: www.adginforma.it

Webcam e computer: anche la montagna scala la tecnologia

Un tempo era il regno dell’avventura spartana e selvaggia. Ora si punta su sicurezza e comfort per richiamare turisti

La montagna al lazo della tecnologia: per sicurezza, marketing e comfort. Ricerche e studi di «flussi escursionistici», test sul grado di accoglienza, sofisticati impianti di quanto accade nei rifugi, infopoint, webcam, sistemi satellitari laddove i cellulari non hanno campo. E sensori contapersone a ogni partenza e bivio di sentiero, nascosti per eliminare pulsioni vandaliche. Ma anche itinerari storico-culturali, la riscoperta dei viaggi a piedi sulle Alpi con Internet e mappe cartacee.

Un piano da 20 milioni
Questa montagna da camminare e rilanciare è in un ambizioso progetto Interreg, finanziato dall’Europa per oltre 20 milioni. Ha come capofila la Regione Piemonte e il Canton Ticino. L’area montana è quella del confine italo-svizzero. È denominato Vetta, acronimo di «Valorizzazione delle esperienze e dei prodotti turistici transfrontalieri delle Terre medie e alte».

Va avanti dal 2007, finirà nel 2013, quando 30 rifugi lombardi avranno il collegamento satellitare e altrettanti in Piemonte, nel Verbano Cusio Ossola, saranno gestiti con il sistema computerizzato Arduino: temperature, flussi di clientela, quantità di scorte (acqua e combustibili) e di rifiuti. Per il momento sono 6. Ricerca e progetto affidato all’università di Torino, dipartimento merceologico.

A guidarlo è il professor Riccardo Beltramo: con lui 12 esperti, dai matematici agli economisti, dai geografi agli informatici e architetti. Sono 26 i rifugi dell’Ossola che sono già stati visitati dall’équipe e sono stati sentiti con questionario anonimo 381 visitatori. Obiettivo: la «Carta di qualità».

Al passo con i tempi
Concorrono al «Vetta» anche la Regione Lombardia, il Canton Grigioni con l’Engadina di Saint-Moritz, la Provincia di Bolzano, il Club alpino italiano lombardo e le sezioni piemontesi di Novara e Villadossola. Ancora, l’Irealp, Istituto di ricerca per l’ecologia e l’economia, l’Atse, associazione ticinese sentieri escursionistici e il Polo di Poschiavo (Svizzera), centro di formazione che ha preparato un quizzone di 2000 domande via Internet per poter ottenere un certificato di conoscenza del territorio.

Per essere promossi bisogna rispondere in modo corretto all’80 per cento delle domande. Cassiano Luminati, direttore del Polo, spiega: «Troppi dipendenti di alberghi, anche a St-Moritz non conoscono il territorio. L’idea è che il quiz possa diventare un requisito per l’assunzione». La spinta è economica. Istituzioni e operatori turistici si sono accorti che la montagna attira, anche gli italiani prendono la via dei sentieri e trascorrono vacanze nei rifugi. Si legge nel programma Vetta che l’obiettivo è «fare rete».

Di sentieri e di rifugi «al passo con i tempi che, tra il modello ormai consunto di accoglienza “alla spartana” e un comfort più comune a un hotel a livello del mare, siano alla ricerca di un nuovo concetto di qualità». Con gestione «ecosostenibile»: autosufficienti per energia e raccolta di rifiuti differenziati. Per dare sviluppo e sostenere investimenti ci vogliono dati, tanti, i più possibili. Ecco a che cosa servono i sensori sui sentieri, conteranno quanti li frequentano.

Le Alpi-azienda
La montagna-azienda calcolerà dove vale la pena di insistere e le priorità di finanziamento. Giorgio Campiche del Canton Ticino offre le tre direttive su cui lavora la Svizzera: «Pianificazione, costruzione, segnaletica». In terra elvetica i sentieri, anche di alta montagna, fanno parte della rete stradale.

I segnali sono un esempio di efficienza: precisi e con colori differenziati perché l’escursionista possa capire dove si sta cacciando, in un bosco o verso una prateria, piuttosto che un ghiacciaio. Renata Viviani, presidente del Cai Lombardia, sottolinea come sia in atto «un profondo cambiamento di percepire la montagna». E partecipa al Vetta con un’équipe di specialisti che studiano «le dinamiche di gruppo a contatto con ambiente».

Fanno quiz sui pullman che portano i turisti verso le Terre alte. Si parla di «studio comparativo» rivolto soprattutto ai ragazzi e agli anziani. «Schede e materiale video da inviare nelle scuole», dice ancora Viviani. Uno psicologo si occuperà sia di giovani sia di anziani, un geologo e le guide spiegheranno l’ambiente, un architetto gli interventi dell’uomo.

La tecnologia, la modernità metropolitana e i suoi metodi salgono ai rifugi, dove la vacanza dovrebbe essere scandita dalla lontananza dai riti quotidiani. Chissà se nel progetto Vetta comparirà l’analisi che Enzo Bianchi,priore del monastero di Bose, fa del senso della vacanza nel suo libro «Ogni cosa alla sua stagione»: «Fuggi, taci e trova la quiete diceva Arsenio. Ecco allora le vacanze come occasione di fare silenzio, di abitare il silenzio, di vivere il silenzio… Il silenzio ci insegna a parlare… possiamo scendere dalla giostra, smettere di ruotare senza mai avere in mano la direzione».

Fonte: www.lastampa.it

Web. Google diventa family friendly

Il progetto è frutto della collaborazione con Save the Children, Telefono Azzurro e Terre des Hommes

Google annuncia di aver creato un nuovo Centro Sicurezza Online per la Famiglia, raggiungibile al link www.google.it/sicurezzafamiglia. Il centro raccoglie suggerimenti di importanti associazioni, consigli e spunti offerti da genitori (che lavorano in Google ma non solo) così come informazioni su come usare gli strumenti di sicurezza che abbiamo sviluppato per i prodotti Google.

La rivoluzione digitale, abbracciata entusiasticamente dai più giovani, mette a dura prova i genitori, che non sempre hanno consapevolezza o competenze per educare i figli a un uso responsabile dei nuovi media, Internet e social network in testa. I nuovi strumenti presentano nuove opportunità di miglioramento del sapere e di socializzazione, ma anche nuove insidie che, per mancanza di tempo o di informazioni, molti genitori non sono attrezzati a comprendere e affrontare.

Google ha deciso di creare il Centro Sicurezza Online per la Famiglia proprio partendo da questa constatazione, suffragata dai dati di una recente indagine alla quale ha fornito il proprio contributo e che ha evidenziato come – in un campione rappresentativo di oltre 500 genitori di bambini tra gli 8 e i 13 anni – appena il 18% abbia mostrato di conoscere appieno le nuove tecnologie e di essere in grado di affiancare in modo appropriato i figli in un approccio corretto e responsabile ai media digitali.

“Dopo il lancio, oltre un anno fa, del Centro di Sicurezza YouTube e la partecipazione a numerose iniziative indirizzate ai giovani, il nostro intento con il Centro per la sicurezza online della famiglia è di ampliare e rafforzare il dialogo anche con i genitori, per aiutarli a meglio comprendere la realtà digitale nella quale si muovono quotidianamente i loro figli”, ha spiegato Marco Pancini, European Policy Counsel di Google per l’Italia.

Il Centro per la sicurezza online della famiglia è suddiviso in diverse sezioni contenenti informazioni sugli strumenti di protezione offerti da Google e consigli per genitori e ragazzi forniti in collaborazione con i tre partner dell’iniziativa. Tra i temi trattati, cyberbullismo, contenuti violenti e/o a sfondo sessuale, adescamento online, privacy. Sono inoltre disponibili un decalogo di consigli generali rivolti direttamente agli insegnanti e ai giovani utenti della Rete, nonché suggerimenti sui comportamenti da tenere nel caso in cui si sia vittime di episodi di cyberbullismo.

Un’altra sezione contiene una serie di risposte alle domande più frequenti delle categorie di utenti cui il sito si indirizza. Vi sono infine link diretti per la segnalazione di episodi di abusi e usi scorretti dei prodotti online di Google e una sezione con i video-consigli forniti dai genitori che lavorano in Google ad alti genitori preoccupati della sicurezza dei loro figli su Internet. Dall’interno del Centro Sicurezza è inoltre possibile accedere direttamente alle pagine informative sull’iniziativa “Non perdere la bussola”, promossa da Google/YouTube in collaborazione con Polizia delle Comunicazioni e Ministro della Gioventù e lanciato oggi stesso. L’iniziativa, complementare alle risorse del Centro di sicurezza online, consiste in corsi di formazione sull’uso sicuro e responsabile della rete organizzati nelle scuole medie e superiori italiane, rivolti a studenti e genitori.

Google ha poi chiesto ad alcuni genitori di condividere consigli pratici da applicare nella vita di tutti i giorni. Le tattiche che usano vanno dal fissare un limite di tempo nell’uso di Internet da parte dei ragazzi, non collocare il computer nella loro camera e controllare periodicamente la cronologia delle navigazioni  e i profili sui social network. Ciascuno ha la propria idea, non esiste qualcosa come la risposta giusta o la risposta sbagliata.

Il nuovo Centro per la sicurezza online della famiglia, infine, offre informazioni su come utilizzare gli strumenti di sicurezza incorporati nei nostri progetti, quali SafeSearch e la Modalità di protezione di YouTube, che possono aiutare a controllare i contenuti che i ragazzi possono trovarsi davanti. I controlli della condivisione dei contenuti in YouTube, Picasa, Blogger e altri prodotti assicurano che video, foto e blog siano condivisi solo con le persone giuste. Inoltre, è stata creata una sezione su come gestire le funzioni di geolocalizzazione su dispositivi mobili.

Fonte: www.vita.it

Italiani popolo di pazienti in Rete

L’Italia è tra i Paesi in cui il «dottor Web» è più consultato, ma pochi controllano l’attendibilità delle fonti. I consigli per chi cerca informazioni.

Otto italiani su dieci si affidano a Internet per cercare informazioni su salute e farmaci, mentre uno su due ricorre al Web per l’autodiagnosi. Purtroppo va aggiunto che tre connazionali su quattro non controllano l’attendibilità delle fonti, rischiando così di imbattersi in contenuti poco affidabili. È quanto emerge dai nuovi dati del “Bupa Health Pulse 2010“, la ricerca internazionale della London School of Economics sui servizi sanitari.

I pazienti italiani sono tra i più digitali in assoluto: più connessi dei cugini francesi (con il 59% si rivelano i meno propensi a ricorrere al Web), degli spagnoli (72%), degli inglesi (73%) e dei tedeschi (80%). Risultano secondi solo ai russi (con il 96% i più digitalizzati del mondo), ai cinesi (92%) e agli indiani (90%).

Le donne italiane consultano il “dottor Web” più degli uomini (83% contro 78%), ma il picco massimo di ricerche legate alla salute, indipendentemente dal sesso, si registra comunque tra i giovani dai 25 ai 34 anni (87%), la generazione evidentemente più predisposta sia per l’età sia per la confidenza con il pianeta dell’online. Quando si tratta, invece, di contattare il proprio medico con un’e-mail o un sms, i più propensi risultano gli uomini (27% contro il 21% delle donne). Da segnalare, infine, un 13% di italiani che ricorre ai social media come Facebook per postare commenti e domande o approfondire temi medici.

Entrando nel particolare, il 65% degli italiani cerca in Rete informazioni sui farmaci; il 47% naviga per effettuare un’autodiagnosi; il 42% si informa su ospedali o cliniche; il 26% cerca a colpi di mouse notizie sui medici; il 13% ricorre ai social media come Facebook per postare commenti e domande o approfondire temi medici.

È gennaio il mese in cui i consigli medici online raggiungono – con l’inizio del nuovo anno e complice una rinnovata attenzione per la salute – il loro picco massimo. Inoltre uno studio della London School of Economics ipotizza nei prossimi anni un’ulteriore crescita delle informazioni online sulla salute: ciò si spiega anche con l’incremento delle vendite di smartphone e ipad previsto entro il 2012. Lo studio spiega che le persone rischiano così di imbattersi in contenuti che non hanno una fonte certa e faticano, dunque, a conoscere ciò di cui si possono fidare.

«Se online si reperiscono delle informazioni inaffidabili – ha commentato Sneh Khemka, direttore medico di “Bupa International” – le conseguenze possono essere serie. Da una parte le persone possono sentirsi falsamente rassicurate da sintomi potenzialmente pericolosi, non cercando l’aiuto di cui hanno bisogno, dall’altra un’informazione imprecisa può portare la gente a preoccuparsi per nulla, a sottoporsi a esami e trattamenti che non apportano loro alcun beneficio. Quando si è alla ricerca di informazioni online è davvero importante assicurarsi che provengano da una fonte attendibile».

«Le nuove tecnologie – ha spiegato David McDaid, ricercatore della London School of Economics – stanno aiutando tantissime persone in tutto il mondo ad approfondire argomenti che riguardano la loro salute e a prendere decisioni con un bagaglio informativo implementato. Tuttavia la gente necessita di informazioni ottimali. Le persone devono ricercare le fonti online badando al marchio di qualità, verificando sia la sezione ’Chi siamò dei siti web, sia la data dell’ultimo aggiornamento delle informazioni stesse».

Ed ecco i consigli per chi cerca informazioni online sulla salute:
1. Migliorare la propria ricerca: quando si va a caccia informazioni online sulla salute è importante essere quanto più specifici è possibile nell’inserimento delle parole chiave.

2. Verificare la provenienza delle informazioni e scegliere scrupolosamente i siti che forniscono informazioni sulla salute.

3. Alcuni paesi hanno marchi di qualità per contraddistinguere i siti web sulla salute affidabili. Ad esempio nel Regno Unito il Dipartimento del Governo di Sanità ha sviluppato uno standard informativo a cui si conformano i siti di elevata qualità che si occupano di salute (tra cui www.bupa.co.uk).

4. Controllare la sezione “Chi siamo”: se non vi sono marchi di qualità è importante scoprire chi gestisce il sito sulla salute e perchè. I siti con una certa fama indicano se gli autori sono qualificati e se vi è un processo editoriale nella produzione dei contenuti.

5. Controllare la data: i consigli medici possono ’scaderè ed è quindi bene cercare la data di pubblicazione delle informazioni. Come regola generale le informazioni sulla salute che hanno oltre due anni devono essere considerate non più valide.

6. Consultare il proprio medico: internet può essere utile per capire qualcosa di più sulla propria salute, ma quando si è preoccupati per un problema occorre contattare il proprio camice bianco.

Fonte: www.lastampa.it

Internet, nell’estate 2011 non ci sarà più spazio

Secondo Cerf questo sarebbe “il momento più critico da quando è nata l’idea della rete”.
Si stima che nell’estate del 2011 termineranno i 4,3 miliardi di indirizzi appartenenti al protocollo su cui attualmente si basa internet, l’Ipv4.
“Quando nel 1981 abbiamo creato il web – afferma Cerf – il numero di indirizzi possibili ci sembrava infinito. L’esplosione di collegamenti e interconnessioni è però sfuggita al controllo ed ora il rischio è che vi sia un segnale d’arresto alle nuove connessioni fino a quando non verrà sviluppato il nuovo protocollo Ipv6“.
Tale protocollo, sul quale si sta già lavorando dal 1998, prevede un numero molto più alto di indirizzi Ip: circa 4 trilioni.

Fonte: www.bitcity.it

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