Roma – Come il padre. Come suo padre, Tommaso Monicelli, morto suicida nel 1946. Fu lui a vederlo per primo quando, una mattina all’alba, udito un colpo di pistola, forzò la porta del bagno e lo trovò esangue. A 95 anni Mario Monicelli ha scelto un altro modo, meno freddo e forse più plateale, per togliersi la vita. Si è buttato dal quarto piano dell’ospedale di Roma dov’era ricoverato per un tumore alla prostata. Il padre, giornalista e scrittore antifascista, aveva sessantatré anni. «Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua», aveva ricordato in una delle sue ultime interviste il regista de La grande guerra. «La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena». E dev’essere stato questo il ricordo, il pensiero, il sentimento con il quale il padre della commedia all’italiana ha deciso il suo ultimo gesto terreno.
Un grande regista, un grande artista, un grande uomo. Fino a prima dell’azione estrema. L’azione della solitudine, del dramma, della disperazione. Lui che con il suo cinema ci aveva regalato attimi infiniti di allegria, comicità, leggerezza, ha scelto per sé un congedo tragico. Il cinismo, la lucidità pessimista, lo spirito caustico che lo hanno sempre accompagnato hanno finito per togliergli qualsiasi speranza, ogni spiraglio per conservare un domani, un futuro seppur breve. Fino a qualche tempo fa, prima della scomparsa dell’amico Dino Risi avvenuta nel giugno 2008, continuava a giocare a chi sarebbe durato di più. Ma la gag goliardica nascondeva una troppo orgogliosa e amara sfida al destino. Che, evidentemente, non è più riuscito a sostenere.
Nato, il 15 maggio del 1915 a Viareggio, figlio del critico teatrale e giornalista Tommaso, dopo la laurea in storia e filosofia a Pisa, Monicelli esordisce nel cinema nel 1932 con il corto, firmato insieme ad Alberto Mondadori, Cuore rivelatore. Padre, con colleghi come Dino Risi, Luigi Comencini e Steno, della commedia all’italiana, è stato regista di circa 66 film e autore di più di 80 sceneggiature. Fino ai primi anni ’50 aveva collaborato con Steno ritagliando su Totò i suoi primi film. Fra i grandi successi dell’epoca, Guardie e ladri (due premi a Cannes nel ’51); I soliti ignoti (nomination all’Oscar), La Grande guerra (1959) trionfatore a Venezia con il Leone d’oro; L’armata Brancaleone (1965). Sono gli anni dell’amicizia con Risi, degli scontri con Antonioni, del controverso rapporto con Comencini, del trionfo della commedia all’italiana e dei «colonnelli della risata».
Il suo attore di riferimento è Alberto Sordi, da lui trasformato in attore drammatico in La grande guerra e Un borghese piccolo piccolo, ma ha anche il merito di scoprire le grandi capacità comiche di due attori nati artisticamente come drammatici: Vittorio Gassman nei Soliti ignoti e Monica Vitti nella Ragazza con la pistola. Il sorriso amaro che accompagna sempre le vicende narrate, l’ironia con cui ama tratteggiare le storie di simpatici perdenti, ne caratterizzano da sempre la sua opera. Nel 1975 raccoglie l’ultima volontà di Pietro Germi che gli affida la realizzazione di Amici miei. Il 1977 è l’anno di Un borghese piccolo piccolo, dal romanzo di Vincenzo Cerami. Seguono fra gli altri Speriamo che sia femmina (1985) e il feroce Parenti serpenti (1993) con cui dimostra di saper leggere le trasformazioni della società italiana con l’acume e la cattiveria di sempre. È del 2006 il tanto desiderato ritorno sul set di un film, rallentato da ritardi e difficoltà produttive, con Le rose del deserto, liberamente ispirato a Il deserto della Libia di Mario Tobino e a Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Ma ricordare i suoi film, la sua arte, significa stilare un lungo elenco di capolavori e attori da lui lanciati e consacrati, da Stefania Sandrelli a Enrico Montesano, da Gigi Proietti a Ornella Muti.
Fonte: www.ilgiornale.it