L’Hi-tech italiano non è in grado di trainare l’economia: il settore, seppur giovane e innovativo, è ancora troppo piccolo e non è in grado di guardare al di là di un mercato locale. Il settore è la punta avanzata di un’economia dei servizi che vale il 71% del valore aggiunto nazionale, il 55% delle imprese attive e il 66% dell’occupazione. Il 65,6% delle imprese del comparto ha infatti solo 1 o 2 addetti (solo l’8,5% supera la soglia dei 10), il 59% è nata dopo il 1986, mentre i dipendenti/lavoratori con almeno una laurea non superano il 35,2% (percentuale che sale al 40% nelle aziende sopra i 10 addetti).
A rivelarlo è un’indagine realizzata dalla Fondazione Nord Est e promossa da Intesa Sanpaolo dal titolo Servizi high-tech, l’importanza della dimensione, che ha analizzato il profilo di quasi 900 imprese del terziario avanzato, raggruppate in 4 macrosettori: software, ricerca e sviluppo, installazione e riparazione hardware ed elaborazione dati. La prima impressione è di trovarsi davanti ad un settore a due facce: le imprese sotto ai 10 dipendenti e quelle sopra. La dimensionalità è dunque la prima chiave per interpretare i piccoli numeri del nostro terziario avanzato (vale il 5% delle imprese del comparto) e, a cascata, la scarsa competitività di tutto il segmento. Per il 60,9% delle aziende censite, il mercato più importante rimane non a caso circoscritto alla provincia in cui opera; per il 19,5% si allarga alla regione, per il 17,5% al mercato nazionale (38,2% per le imprese over 10) e solo per l’1,8% all’Ue (10,5% per le aziende più grandi).
A dimensioni diverse corrispondono anche capacità di attivare network. Solamente il 3,7% di queste aziende è o è stata ospitata in un parco scientifico tecnologico o in un incubatore. Ma tra quelle over 10 la percentuale sale al 12,2%. Solo una su 5 (20,1%) ha attivato collaborazioni con le Università, quota che tocca il 49,3% tra le aziende più strutturate. Lo stesso vale per la capacità di partecipare a progetti Ue: l’8,4% è riuscito a ritagliarsi ruoli di primo contraente, partner o beneficiario, indice che sale al 27,6 sopra i 10 dipendenti. Ancora piccoli numeri, certo.
Il terziario italiano è troppo minuto, frammentato, dunque non è competitivo sul piano internazionale, spiega Daniele Marini, docente all’università di Padova e direttore scientifico della Fondazione Nord Est. Peraltro un buon terziario è fondamentale per lo sviluppo industriale. Esiste un forte legame tra le imprese dei servizi high-tech e il mondo produttivo, da cui mediamente proviene il 75% del fatturato, con punte dell’81% nel Nord Ovest. Invece il terziario italiano si è rivelato finora un’infrastruttura troppo fragile per coltivare progetti di sviluppo. I servizi producono meno ricchezza di quel che potrebbero e il Pil non tornerà a crescere forte finchè la loro redditività non sarà più robusta.
Questa è la seconda schizofrenia che emerge dalla ricerca. Se l’industria ha ricominciato a produrre ed esportare, sia pure a singhiozzo (va meglio chi ha internazionalizzato prodotti e processi, si è patrimonializzato e ha fatto innovazione), l’altra gamba del sistema economico, cioè il terziario, è fermo. Nell’ultimo scorcio del 2010, il valore aggiunto dell’industria è cresciuto del 4,3%, quello dei servizi appena dello 0,7%, sostenuto dai segmenti bassi come il turismo, i trasporti e le comunicazioni. E ancora. Secondo il Censis negli ultimi 5 anni gli occupati nelle professioni terziarie non qualificate sono cresciuti del 16,4% mentre i posti ad alta specializzazione appena del 3,8%. Morale: il terziario all’italiana è purtroppo ridotto a settore rifugio in forte deficit di produttività.
Fonte: www.clandestinoweb.com