ALL’INIZIO fu il Commodore 64. Poi sono arrivati i cellulari, internet, la banda larga, le mail, i bip-bip dei Blackberry, l’esercito dei tablet, Skype e le teleconferenze. Una manna, garantivano. La chiave hi-tech per liberare dopo millenni l’uomo dalla schiavitù del lavoro consentendogli – come vaticinava John Maynard Keynes – “di dedicargli un massimo di 15 ore alla settimana”. Peccato che non sia andata proprio così: le nuove tecnologie ci hanno consentito di moltiplicare la nostra efficienza per quattro (oggi produciamo in 9 ore quello che nel 1950 si faceva in 40) ma il nostro orario d’ufficio non si è accorciato di un secondo. Anzi: il progresso, con buona pace di Keynes, ci ha portato dritti-dritti tra le braccia della “24-hours economy”, come dicono gli inglesi. Un’era in cui non solo si lavora di più – da metà anni ’70 il tempo passato alla scrivania o in fabbrica ha ripreso ad allungarsi – ma soprattutto non si riesce più a staccare la spina: ogni sera spegniamo il computer, timbriamo il cartellino e rientriamo in famiglia. Ma l’ufficio – complici le meraviglie della tecnica – viene con noi.

Sotto forma di una pioggia di mail, videochiamate, file e documenti da controllare mentre si cambiano i pannolini ai bambini, l’arrosto in forno manda un preoccupante odore di bruciato e il cane, nervosissimo, scodinzola davanti alla porta in attesa della passeggiatina serale.
Benvenuti nel secolo del lavoro senza confini (di tempo). Dell’ufficio virtuale – un uomo, il suo telefono e il suo pc – aperto
ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette. Un mondo dove i paletti tra dovere e piacere sono saltati, così come – spesso – quelli tra giorno e notte. Il tran-tran dell’orario 9-17 è solo un bel ricordo: ci si sveglia compulsando dal letto (per lavoro) la posta elettronica, ci si addormenta cullati dal tenue chiarore di un foglio Excel sull’IPad, per poi alzarsi a metà notte per una teleconferenza con Seattle. Una rivoluzione che poco alla volta sta stravolgendo metabolismo e abitudini di mezzo mondo mettendone a rischio non solo le relazioni sociali ma pure, dicono gli esperti, la salute.

Il primo allarme sulla rivoluzione silenziosa del lavoro no-limits è stato lanciato, non a caso, della Organizzazione mondiale della Sanità. Al mondo, dicono le statistiche dell’International Labor Organization, un dipendente su cinque è impegnato oggi più di 48 ore alla settimana. Uno zoccolo duro cui si è aggiunto adesso l’esercito di stakanovisti costretti da Blackberry & C. a spalmare sulle 24 ore la propria reperibilità professionale. L’Oms ha sottoposto a uno screening scientifico queste categorie di persone e alla fine, dati inconfutabili alla mano, ha inserito il lavoro fuori orario tra le possibili cause di rischio sanitario con un aumento dal 30 all’80% della possibilità di contrarre patologie tumorali.

Per gli esperti si tratta solo di una conferma. Il Giappone – dove la fedeltà e la produttività di un dipendente sono direttamente proporzionali al tempo che passa inchiodato alla scrivania o incollato allo schermo del pc da casa – è stato costretto a coniare un termine ad hoc, karoushi, per definire le morti causate da overdose da lavoro. Diverse grandi aziende hanno pagato indennizzi stratosferici alle famiglie degli impiegati spremuti come limoni e poi stroncati dagli straordinari. E oggi tutti i big della Tokyo Spa, imparata la lezione a colpi di yen, hanno imposto paletti rigidissimi alle ore di lavoro extra, compreso quelle sbrigate a domicilio. Altrove si preferisce prevenire. La Corea – recordman mondiale nel campo con 2.301 ore all’anno di lavoro a testa, il 33% in più dell’Italia – ha molto prosaicamente varato un “procreation day”. Un giorno in cui tutti sono costretti a tornare a casa alle 19 di sera e a non accendere più pc o telefonini fino al mattino seguente. Obiettivo dichiarato: dedicarsi ai piaceri (dimenticati) della vita coniugale e, possibilmente, a mettere in cantiere nuove braccia per l’economia del Paese.

La scienza del resto, parla chiaro: l’uomo (e gli animali) non sono fatti per lavorare 24 ore su 24. I ritmi circadiani del nostro metabolismo sono uno strumento complesso, calibrato con il bilancino: abbiamo almeno un centinaio cicli vitali – dalla temperatura alla produzioni di enzimi fino all’attività cerebrale – legati a filo doppio all’alternanza giorno-notte, con alti e bassi nei loro valori che condizionano di molto la nostra efficienza mentale. Farli saltare, come accade nella 24 hours economy, significa non solo mettere a rischio la salute, ma pure (un argomento che le leggi del capitalismo capiscono molto bene) ridurre drasticamente la produttività.

La Queen Mary University di Londra, nel dubbio, ha provato a testare le capacità al riguardo del più indefesso dei lavoratori del regno animale: le api. Gli scienziati inglesi hanno applicato identificatori radio sul corpo di 1.049 “operaie” di un alveare in Finlandia nell’estate artica, quando tutte le piante sono in fiore e il sole brilla in cielo 24 ore su 24. Risultato: “Malgrado la possibilità di lavorare senza interruzione, gli insetti si ritiravano a riposare nei favi dalle 23 di sera fino alle 8 del mattino – spiega Ralph Stelzer, uno dei coordinatori dell’esperimento – dimostrando che il beneficio del riposo in termini di produzione di miele è superiore a un orario di lavoro allungato sull’intera giornata”. La stessa conclusione cui era arrivato grazie al suo intuito Henry Ford, storico fondatore dell’omonima casa automobilistica americana, il primo tra i grandi tycoon a stelle e strisce a tagliare unilateralmente la durata della giornata lavorativa dei suoi dipendenti: “Se non hanno tempo per divertirsi e consumare chi comprerà mai le nostre macchine?”, diceva. Concetto su cui oggi, a forza di dimostrazioni con algoritmi, concordano persino i cervelloni di Harvard e del Mit.

“Un buon equilibrio tra lavoro, riposo e tempo libero è il segreto di un’economia che funziona”, assicura Jon Messenger dell’Ilo. I numeri confermano: la spagnola Iberdrola ha eliminato due ore di pausa a metà giornata (il corrispondete della vecchia siesta) consentendo ai suoi dipendenti di tornare a casa alle 16 di pomeriggio, registrando un’impennata di produttività e un netto calo dell’assenteismo. La città di Houston ha varato il piano “Flex in the city”, convincendo molte imprese locali a liberalizzare l’orario d’ingresso per ridurre il traffico e facilitare i viaggi dei pendolari. Risultato: ingorghi a picco e un taglio del 58% per lo stress misurato sui lavoratori.
“Non c’è dubbio che il mondo si è globalizzato e che le tecnologie ci consentono e in qualche modo ci costringono a rivedere la flessibilità dei nostri orari”, ammettono alla Ilo. Ci vogliono più negozi aperti anche la notte. Qualche conference call fuori orario va messa in conto. Ma la 24-hours economy, se non altro per puri motivi di salute, “non può diventare la regola”. In fondo gli studi antropologici condotti in questi anni sulle tribù dei Machiguenga, nell’Amazzonia, dimostrano che Keynes, invece che guardare avanti, avrebbe fatto meglio a guardare indietro. I fieri indios peruviani dedicano al lavoro (nel loro caso la caccia) 4 ore e 56 minuti in media al giorno. Poi, felici, pensano solo a se stessi. Nel mezzo della foresta pluviale, per loro fortuna, non c’è campo per il Blackberry.

Fonte: http://www.repubblica.it