Comma3 - Strumenti e soluzioni per comunicare con internet

Categoria: Tecnologia Pagina 16 di 33

Walmart testa l’app “Scan & Go”: sarà il futuro dello shopping?

Uno smartphone e un’app per saltare lunghe file alle casse. Funzionerà?

Gli attuali sistemi di checkout dei supermercati o dei centri commerciali sembrano piuttosto antichi, specialmente in Italia e soprattutto se messi in relazione con gli enormi progressi fatti dalla tecnologia.

Come ben sappiamo ormai infatti lo smartphone è divenuto anche un eccellente strumento di pagamento e sempre più retailers si affidano a delle app per allargare l’esperienza d’acquisto dei propri  clienti come vi abbiamo già raccontato in passato. Non è dunque il momento di iniziare a utilizzare questi strumenti per rendere lo shopping però anche più pratico?

Forse è ragionando proprio in quest’ottica che Walmart, il più grande retailer statunitense, ha ideato un sistema innovativo che potrebbe drasticamente cambiare il modo in cui gli americani (e non solo) faranno shopping.

Secondo quanto riportato da Reuters, si tratta di un’app per smartphone, chiamata “Scan & Go“, che permette ai clienti di scannerizzare i prodotti che desiderano acquistare all’interno del negozio con il cellulare, imbustarli e poi pagare direttamente a una cassa self-service.

Non solo questo rende dunque più semplice e veloce l’acquisto per il cliente saltando la fila alle casse tradizionali ma allevia certamente l’azienda del peso di parte degli ingenti stipendi che paga ai cassieri (di tutto il paese) abbattendo i costi e diminuendo i prezzi, favorendola nel raggiungimento di un enorme vantaggio competitivo .

Proprio questa settimana l’azienda statunitense  ha fatto un test con protagonisti i dipendenti ed i loro amici e famiglie in un Walmart Supercenter a Rogers, Arkansas, non lontano dal quartier generale Bentonville del gigante della vendita al dettaglio.

Questi test sono stati fatti con degli iPhone (essendo questi i dispositivi più diffusi sul suolo americano), ma non abbiamo alcun dubbio che se i test dovessero risultare positivi verranno rilasciate poi applicazioni anche per device Android e Windows Phone.

Come funziona?

Anzitutto, i clienti installano Scan & Go app sul proprio smartphone. Dopodiché, dopo aver scansionato il codice a barre dei prodotti presenti sugli scaffali, potranno metterli direttamente in busta.

Una volta che hanno imbustato e scansionato tutto ciò di cui hanno bisogno, l’applicazione invia i dati raccolti alle casse self-service dove i clienti si fermeranno prima di uscire per procedere al pagamento con la carta di credito.

La versione di prova non ha per ora un sistema di pagamento mobile incorporato nell’app che consenta ai clienti di completare la transazione direttamente con i loro smartphones ma non è detto che questa non possa essere una funzione integrabile successivamente. L’app include però altre funzioni come la possibilità per i clienti di creare delle liste o vedere da casa quali articoli sono disponibili in magazzino.

Mentre le casse automatiche sono comuni in molti negozi, la possibilità di eseguire la scansione di oggetti con il proprio telefono cellulare durante lo shopping senza doverlo fare alla cassa rappresenta una novità assoluta. Sempre secondo Reuters, un tentativo simile venne fatto tempo fa dalla catena statunitense Jewel-Osco che forniva gli acquirenti di scanner portatili (e non smartphone) con i quali scannerizzare i prodotti e poi girare i dati alle casse al momento del pagamento, ma è una prova che non ha avuto seguito a causa degli evidenti limiti che comunque presentava.

Conclusioni

Il sistema ideato dal Walmart potrebbe davvero rivoluzionare il mondo dello shopping e presenta risvolti positivi ma anche negativi. Il primo evidente problema è la altissima probabilità che delle persone possano imbustare i prodotti senza scansionarli e andare via senza pagarli ma è un fenomeno aggirabile assumendo un addetto al controllo all’uscita.

Un secondo problema evidente risiede nel fatto che non sempre i sistemi automatici portano benefici: mettiamo infatti il caso in cui per distrazione scansionassimo due volte lo stesso prodotto o nel caso in cui lo smartphone non riconosca l’oggetto durante la scansione.Avremmo bisogno comunque di una persona che ci aiuti a portare a termine la scansione risolvendo il problema.

Tutto ciò allunga e non abbrevia l’esperienza d’acquisto rendendola forse più complicata di come avviene normalmente. Inoltre secondo il mio punto di vista non sarà realmente un’app rivoluzionaria fino a quando non consentirà anche il pagamento via mobile.

Un sistema del genere può essere applicato in paesi come quelli anglosassoni in cui la cassa automatica e la  carta di credito sono ormai divenuti strumenti di pagamento utilizzati da tutti. Non credo infatti che tale strumento possa essere utilizzato in Italia, un paese in cui la maggior parte dei consumatori preferisce ancora acquistare tramite contanti.

Detto ciò aspettiamo dunque fiduciosi sviluppi dell’app che possano colmare queste piccole pecche nella speranza che in futuro anche nel nostro paese qualche grossa catena possa avanzare una proposta simile.

Per adesso siamo curiosi di sapere che idea vi siete fatti voi di questo sistema. Pensate che tale tecnologia possa realmente essere applicata al caso italiano e rivoluzionare l’esperienza d’acquisto dei consumatori?

Fonte: Ninjamarketing

 

Arriva Google Wallet il portafoglio elettronico

Un portafoglio elettronico intelligente racchiuso nel nostro cellulare, per pagare nei negozi all’istante, sfruttare coupon e custodire lo scontrino. Tutto con un solo strumento e tutto in digitale. E’ Google Wallet, piattaforma a cui il gigante del web ha tolto i veli qualche minuto fa, in conferenza stampa. Era una novità attesa, ma ora se ne conoscono i dettagli. Il servizio debutterà per ora solo negli Stati Uniti, in estate, a partire dalle città di New York e San Francisco. Si avvale della partnership di Mastercard (ma supporterà tutte le carte di credito), Citigroup e funzionerà in 120 mila negozi, tra cui la catena di fastfood Subway, Macy’s, American Eagle Outfitters, Wallgreen’s, Toys R Us. Bisognerà avere uno smartphone per usare Google Wallet e all’inizio solo il Nexus S, dotato di chip Nfc (Near field communications). Questa è infatti una delle tecnologie cardine di Google Wallet, che utilizza però anche internet e il gps ed è quindi più sofisticata di altre piattaforme Nfc già funzionanti in varie parti del mondo. Ricordiamo infatti che l’interesse ultimo di Google è estendere la propria piattaforma pubblicitaria anche al mondo dei cellulari.

L’utente quindi paga con il cellulare. Lo avvicina a un lettore abilitato (gli stessi che ora leggono le carte di credito contactless) e l’addebito arriva sulla carta di credito associata al chip Nfc presente nel cellulare. Nel caso del Nexus One il chip è integrato, ma ci sono già soluzioni per metterlo nella sim, in una memory card oppure su speciali sticker. Secondo Juniper Research, il 20 per cento degli smartphone venduti nel 2014 integrerà Nfc, inoltre. Insomma, nei prossimi anni non dovrebbe essere troppo difficile avere nelle mani uno strumento abilitato per pagare così. Fin qui è il sistema Nfc classico, Google però aggiunge qualche nuovo aspetto. Manderà via internet, ai cellulari degli utenti, coupon e offerte sconto “last minute”, anche in base al luogo dove si trova in quel momento. E’ la filosofia di Groupon, a cui già Google ha cominciato a fare concorrenza con il servizio Offers in alcune città americane. La particolarità di Wallet è che l’utente farebbe tutto con il cellulare: qui riceve l’offerta (“vedi che nel fast food a due isolati da te, danno gratis le patatine se porti questo coupon”); entra nel negozio e sempre con il cellulare paga, avvicinandolo al lettore (al momento non è chiaro se dovrà anche digitare un pin, come avviene in alcuni sistemi di pagamento simili). Il lettore riesce a capire che nel cellulare c’è anche un coupon e applica lo sconto in automatico. Memorizza quindi la ricevuta all’interno della memoria del cellulare. A questo punto, non serve più davvero avere un portafogli.

L’interesse di Google è mettersi al centro di un ecosistema pubblicitario che è a cavallo tra internet e i negozi “reali”: è la nuova frontiera del business. Ora quello di Google è infatti troppo schiacciato sulla pubblicità nel motore di ricerca (ne ha tratto il 96 per cento dei ricavi, l’ultimo anno) ed è opportuno differenziarlo. Google, con Wallet, spera inoltre di conoscere meglio le abitudini di acquisto dei propri utenti, non solo online ma anche offline. “Non è il pagamento che gli interessa, ma i dati sottostanti”, come spiega Charles Golvin, analista dell’osservatorio Forrester Research.

E’ probabile che Wallet spingerà l’Nfc negli Stati Uniti, dove finora si è poco diffuso. Ci sono state soprattutto sperimentazioni. Starbuck’s ha lanciato un servizio simile, ma basato sul codice a barra invece che sull’Nfc. Molto bolle in pentola. Da parecchio tempo si mormora che il prossimo iPhone avrà l’Nfc. E’ di qualche giorno fa il lancio, nel Regno Unito, del servizio dell’operatore Orange: Nfc abilitato su 50 mila negozi (per ora con un modello Samsung), tra cui le catene McDonald’s, Eat, Subway, Pret a Manger. O2 intende seguire l’esempio, nel Regno Unito, entro quest’anno. Altro esempio interessante è il progetto francese Cityzi (1.200 negozi), a Nizza, che sarà allargato ad altre città entro dicembre. Vi collaborano più operatori e banche sotto l’egida del governo e delle municipalità. In Italia siamo lontani dal raggiungere un simile livello di accordi. Ad oggi spicca la sperimentazione di Telecom Italia, con l’Nfc, per pagare nella metro milanese.

Fonte: http://www.repubblica.it

La pubblicità su internet scopre i social network

La marcia dell’economia digitale passa anche per le vendite online e la pubblicità, riproposizione postmoderna del commercio e della sua vecchia anima. Dinamiche che s’insinuano in quella filiera della complessità e all’interno di quei percorsi condivisi che necessitano di essere raccontati in 140 caratteri (su Twitter) oppure ripostati (su Facebook), potente megafono del nostro e dell’altrui pensiero.

Dell’economia dei nuovi media, di marketing digitale, di editoria, nuove televisioni e cyber advertising si è parlato ieri al Forum Digital Media organizzato dal Sole 24 Ore, nel corso del quale è stata presentata una ricerca dedicata proprio ai consumatori digitali.

«Solo il 54% degli italiani è connesso a internet – ha spiegato Antonio Noto, numero uno di Ipr Marketing, che ha realizzato il report – e sono le donne e i giovani le categorie che in media passano più tempo sulla rete: 4 ore al giorno il 37% delle prime contro il 39% dei 18-34enni». Anche se il dato più interessante riguarda proprio l’ecommerce: nell’ultimo anno sul web hanno fatto acquisti online quasi 8 italiani su dieci e i prodotti preferiti sono quelli dell’editoria: libri, film, musica, seguiti da elettronica, informatica e abbigliamento.

E tutto avverrà sempre di più anche in mobilità, se è vero quello che ha detto Cesare Sironi, amministratore delegato di Matrix e head of innovation di Telecom Italia: «In tutto il mondo nel 2011 conteremo 4-5 miliardi di devices connessi, ma nel 2020 saranno probabilmente 50 miliardi. Tra questi rientrano anche le tv, che in tempi molto più brevi saranno tutte online».

La televisione, appunto. «Da questa stagione Mediaset ha messo a disposizione l’intero palinsesto – spiega Yves Confalonieri, direttore Rti interactive media – e non ha tolto nessun ascoltatore alla tv». Dello stesso avviso Andrea Portante, responsabile marketing di Rai nuovi media: «Non c’è alcuna cannibalizzazione tra le piattaforme».

E la pubblicità? Quest’anno l’advertising online arriverà a valere in Italia oltre un miliardo di euro sui 9,2 miliardi del mercato complessivo, ancora dominato per quasi il 60% dalla televisione. «Dal punto di vista pubblicitario nel futuro ci saranno tre internet – dice Luca Paglicci, a capo della Websystem, la concessionaria online del Sole 24 Ore – l’editoria online, il social networking e poi Google, ovvero la search. Il mondo dell’editoria non perda occasioni».

Ma per far decollare gli spot online «servirà trovare nuovi formati e non fermarsi al banner, i creativi in questo senso non hanno ancora dato il meglio di sè», sostiene Francesco Giromini di Bright.ly. Di pubblicità “social” ha parlato Luca Colombo, country manager per l’Italia di Facebook, che ha spiegato come sul “libro faccia” «le campagne possano prevedere anche budget limitatissimi pur essendo sempre più potenti».

Fonte: http://www.ilsole24ore.com

In azienda la rivoluzione dei social network E’ il momento della Weconomy

ROMA – Facebook, Skype, Youtube: sul lavoro non sono occasione di distrazione, ma piuttosto strumenti che stanno rivoluzionando in positivo le relazioni tra colleghi e tra aziende, favorendo la collaborazione e la trasparenza. E’ quanto emerge da un’indagine che verrà presentata il 24 maggio a Milano, in occasione del Weconomy Day, organizzato da Logotel e dal Centro Formazione Management del Terziario (CFMT). Secondo l’indagine, effettuata dal CFMT, e che ha coinvolto un campione di oltre 1.000 imprese dei servizi e del commercio, il 20% delle aziende italiane del terziario utilizza le piattaforme di social network. La più utilizzata in azienda è Skype (48%), seguita da Linkedin (36,8%), Facebook (29,8%), Youtube (26,4%), e infine dalle piattaforme wiki (19%) e dai blog (17,3%). Percentuali destinate ad aumentare nel prossimo futuro.

Molti manager sono convinti che l’uso di quelli che sono stati definiti strumenti di “weconomy”, cioè di economia condivisa, non possa che favorire l’impresa. “Nel modello economico che sta prendendo piede – spiegano gli analisti del CFMT, centro di ricerca nato nel 1994 per iniziativa di Confcommercio e Manageritalia – quello riassumibile nella tendenza contemporanea alla condivisione e alla partecipazione, la vecchia impresa fordista basata su una visione e gestione egocentrica non ha nulla da raccontare, nessuna risorsa per coinvolgere collaboratori, fornitori e clienti. L’impresa del futuro è invece quella che democratizza i processi gestionali, co-progetta e stimola questa preziosissima massa critica di talento collettivo verso la creazione di valore nelle reti globali”.

In altre parole le nuove piattaforme tecnologiche possono anche contribuire all’emersione dei talenti all’interno delle realtà aziendali. “Dal basso, dal bordo, il web 2.0, i social network, la generazione digitale stanno facilitando e imponendo nuove pratiche”, scrive Giuliano Favini, amministratore delegato di Logotel, nella prefazione di Weconomy, di Isaac Mao, il libro che teorizza questa evoluzione della struttura delle imprese, tendenza che è stata battezzata “sharismo”.

Tuttavia, perché le piattaforme di social network adottate all’interno dell’azienda possano dare davvero questi risultati positivi, occorre seguire una serie di regole. Secondo l’indagine della CFMT, i manager ritengono che innanzitutto occorra “raccontare chiaramente la promessa della piattaforma ai partecipanti” (69%), “garantire una radicale trasparenza sulle decisioni chiave e sui financial metrics” (58,8%) e “creare o eleggere una community governance board, così da orientare e revisionare le principali decisioni politiche e strategiche (45,9%).

“Co-operation” (52%) e Co-working (42%) sono i cardini, secondo i manager intervistati, dell'”impresa collaborativa”. Che promuove anche la “trasparenza dei criteri di valutazione dei risultati e delle professionalità” (58%), le assunzioni in base a criteri di merito professionale (41%) e la partecipazione al rischio abbastanza ampia (35%). Il 52% dei manager intervistati ha affermato anche di aver adottato strumenti di “formazione più coinvolgente e condivisa”, e di aver favorito la creatività collettiva (26%). La cooperazione vale anche all’esterno, verso le altre imprese: ha promosso network di questo tipo il 49,7% degli intervistati.

Percentuali troppo ottimistiche? In effetti in Italia, ammettono gli organizzatori del Weconomy Day, si parla pochissimo di queste nuove tendenze. E probabilmente la svolta impressa dall’uso dei social network in azienda sta muovendo ancora i primissimi passi. Tuttavia il CFMT, oltre ad avviare una riflessione su questo tema con la giornata del 24, intende promuovere un tour all’interno delle aziende italiane, per far conoscere “i nuovi strumenti collaborativi”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Fenomeno Foodspotting è il photo-network del cibo

Per chiunque ami la buona cucina, il primo impatto può indurre una potente salivazione, quasi al limite del pavloviano. Si avvia l’applicazione sullo smartphone, si preme un pulsante e dopo pochi secondi la piccola mappa su schermo si popola di foto. Tutte istantanee di cibo, in ogni sua forma. Primi piatti italiani, grigliate di carne, cucina orientale, street food, pizza. Molta pizza. Se il mondo fosse forchetta, canterebbe Cecco Angiolieri, questa sarebbe la sua pornografia. In realtà è solo l’ultima frontiera delle reti sociali.

Foodspotting 1, in inglese, significa più o meno “avvistare il cibo”. E il social network omonimo, dedicato ai proprietari di smartphone con la passione per la cucina, fa esattamente questo: permette di vedere il cibo. Ma soprattutto di fotografarlo, in qualsiasi ristorante, pizzeria, tavola calda o chiosco del globo, e di condividerlo online, pronto per essere votato, commentato e, in ultima analisi, salivato dagli altri utenti.

L’idea di Foodspotting non è dissimile da quella dei più recenti social network fotografici, come Instagram 2, Path 3 o Piczl. Ma se su Instagram si condividono foto artistiche, su Foodspotting il tema esclusivo è la gastronomia. L’applicazione, che ha appena festeggiato un anno di vita, è disponibile su iPhone e Android, ma presto sbarcherà anche su BlackBerry. Ad oggi, si appoggia su un database di oltre mezzo milione di foto, alimentato da una comunità di circa 800.000 utenti solo su iPhone. E dopo gli Stati Uniti, ha cominciato a diffondersi anche in Italia.
L’intuizione è di due ragazzi di San Francisco, Ted Grubb e Alexa Andrzejewski, che hanno costruito intorno al cibo una vera e propria esperienza sociale, sulla falsariga di quella di FourSquare e Gowalla, i social network dei luoghi. Ogni cibo può essere fotografato, geolocalizzato e votato, segnalandone la qualità con un’apposita coccarda. Accumulando segnalazioni di piatti è possibile guadagnare “distintivi” da esperto, da ostentare nel proprio profilo da gourmet. Il modo più veloce per assurgere alla fama è invece quello di creare una guida tematica, stilando il proprio elenco di cibi e ristoranti consigliati, che gli altri utenti potranno poi seguire (letteralmente) sulla mappa digitale. E il gotha dell’alta cucina sembra aver raccolto con gusto l’invito, se è vero che tra le guide più seguite ci sono già quelle di alcune famose riviste o di chef di fama internazionale. Perché la gastronomia, in fondo, è prima di tutto una questione di fedeltà.

Social netfork. Foodspotting, in realtà, è solo il primo esperimento di successo nel campo delle food-community fotografiche. Ma come per ogni nuovo fenomeno in crescita, i concorrenti non si sono fatti attendere. È il caso di Chewsy 4, un’applicazione per smartphone sviluppata nel tempo libero da un piccolo gruppo di dipendenti Microsoft, ma che già ha raccolto un discreta community di appassionati negli Stati Uniti. Anche in questo caso il cibo si fotografa e si condivide, ma a differenza di Foodspotting qui prevale l’approfondimento. In primo luogo, gli utenti sono invitati a scrivere recensioni più accurate, per non relegare la segnalazione all’invio di una foto. A ogni piatto, inoltre, è possibile assegnare un voto specifico (da uno a cinque cucchiai), esprimendo quindi anche giudizi negativi.

E la storia si ripete. Solo alcuni mesi fa, l’universo digitale aveva registrato il boom di Instagram, il social network della fotografia graziato da oltre un milione di iscritti dopo nemmeno tre mesi dal lancio. Un successo che aveva aperto il campo ad altri competitor, come l’ambizioso Path (una rete sociale volutamente ristretta agli amici più intimi), il discusso Color 5 (progettato per condividere le foto geograficamente) o il prossimo ZangZing. Ora tutto può essere replicato in chiave gastronomica. E gli smartphone, a quanto pare, stanno lasciando le strade per accomodarsi a tavola.

Fonte: http://www.repubblica.it

L’energia viene dalla voce Il cellulare si ricarica parlando

ROMA – La voce umana è energia. E ricaricare il telefonino semplicemente parlando potrebbe essere possibile già nel futuro prossimo, almeno secondo una squadra di ingegneri dell’Università sudcoreana di Sungkyunkwan a Seoul. “Abbiamo cercato di trasformare il suono in elettricità”, dice l’ingegnere Sang-Woo Kim al quotidiano inglese Telegraph. “La voce è una possibile fonte di energia, a cui non è mai stata data l’attenzione che merita”.

A rendere possibile la cosa è un nuovo tipo di batteria, in grado di trasformare le vibrazioni sonore in elettricità. Non solo la voce, quindi: il telefonino si potrebbe ricaricare anche lasciandolo in un ambiente rumoroso. Magari, tenendolo in tasca quando si viaggia su un mezzo pubblico. Più rumore c’è, meglio è, secondo i ricercatori. Una soluzione che potrebbe invitare ad urlare nel telefono per ricaricarlo.

Come funziona. Tutto sommato, non sembra un’idea complicata. Alla batteria è collegato un materiale fonoassorbente, che vibra e trasmette la vibrazione a filamenti di ossido di zinco. Questi rispondono alla vibrazione contraendosi ed espandendosi, producendo elettricità. Al momento esiste solo un prototipo della batteria, in grado di alimentare dispositivi a basso consumo. Ma le applicazioni commerciali e su più ampia scala potrebbero non essere così distanti.

Non solo parole. Ma l’intuizione di Sang-Woo Kim è una di quelle destinate a fiorire. Limitarsi a ricaricare i cellulari, quando una simile tecnologia potrebbe essere usata anche per i veicoli, i computer, l’illuminazione, insomma qualunque dispositivo alimentabile con una batteria? Dice l’ingegnere: “Se le autostrade fossero dotate di protezioni acustiche, potrebbero catturare il suono dei veicoli e permetterne la ricarica in marcia, al contempo diminuendo la rumorosità nell’ambiente”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Più internet mobile e boom di app “Viviamo una rivoluzione mobile”

MILANO – Digitiamo sempre più sms, chiamiamo di continuo e spendiamo molto più degli scorsi anni per collegaci alla rete con gli smartphone e scaricare le applicazioni. Il rapporto quasi simbiotico degli italiani con i cellulari non accenna a raffreddarsi, ma l’uso che facciamo di questo mezzo si sta evolvendo in fretta. A testimoniarlo sono gli ultimi numeri di uno studio realizzato dall’Osservatorio Mobile Internet della School of Management del Politecnico di Milano 1, che ha monitorato tutti i capitoli di spesa degli italiani quando si parla dell’uso del cellulare.

“Si è attivato un circolo virtuoso che ci induce a parlare di Mobile Revolution – spiega Andrea Rangone, Responsabile Osservatori ICT del Politecnico di Milano – Perché rivoluzionarie sono le peculiarità del mezzo che possono essere sfruttate, l’impatto che il Mobile avrà sul comportamento del consumatore e quello che avrà anche sulle imprese e sulle pubbliche amministrazioni”.

Lo studio dell’Osservatorio fotografa un settore in rapida evoluzione, che nel suo complesso di connessioni, contenuti e pubblicità vale ormai 1.121 milioni di euro in un mercato, quello delle telecomunicazioni mobili. da oltre 20 miliardi e mezzo di euro. Le connessioni e i contenuti hanno registrato una crescita del 7% dopo lo stop dell’anno scorso. Ma dietro questa cifra ci sono settori in rapido declino e altri che fanno ormai la parte del leone e che nei prossimi tempi incideranno sempre più nel mercato. Si parte dalle connessioni da cellulare, cresciute del 27% in un solo anno e per le quali gli italiani spendono più di mezzo miliardo di euro. La diffusione di dispositivi sempre più “web-centrici” ha fatto bene soprattutto ai contratti flat, sottoscritti ormai da quasi 4 navigatori mobili su 10 e in crescita del 43% rispetto al 2009.  Questa esplosione di nuove collegamenti porta a 11 milioni il numero degli italiani che va in rete dal cellulare, quasi la metà di coloro che si connettono dal pc di casa e dell’ufficio. Una connessione più breve e “ripetitiva” di quella tradizionale però, che dura in media mezz’ora al giorno e ripercorre sempre gli stessi siti.

L’altro grande settore in forte espansione non poteva che essere il mercato delle app: Appstore di Apple, Android market, Ovi Store di Nokia e GetJar sono solo alcuni dei più conosciuti “negozi” di programmi per cellulari, ma all’elenco si sono aggiunti di recente gli store degli operatori telefonici. Questo piccolo universo, che fino al 2008 attirava meno dell’1% della spesa per i contenuti mobili, ha registrato una crescita del 113% nell’ultimo anno e adesso vale il 9% della torta. Un valore però di gran lunga inferiore a quello generato dai contenuti “tradizionali” come le suonerie, i giochi e gli sms di dating che, suppure in calo da qualche anno, continuano ad attirare il 91% della spesa complessiva degli italiani.

“Nonostante il grande fermento di tutti gli attori del mercato per il boom degli smartphone venduti e delle Applicazioni sviluppate, le dinamiche di crescita si dimostrano forse più lente di quelle che qualcuno ipotizzava – commenta Filippo Renga, Responsabile della Ricerca Mobile Internet, Content & Apps – Si tratta di un mercato che necessita di tempo per trasformare gli enormi numeri riguardanti offerta e download in ricavi, sia pay che pubblicitari”.

Le sfide dei prossimi anni, su cui sono puntati gli occhi di tutti gli osservatori, sono la diffusione della rete ultraveloce mobile nel paese, la sempre maggior penetrazione degli smartphone tra i consumatori (settore in cui l’Italia è già all’avanguardia), la battaglia trai diversi sistemi operativi mobili e il ruolo delle piattaforme di pagamento mobile. La rivoluzione è appena cominciata.

Fonte: http://www.repubblica.it

Wi-Fi in tutte le scuole entro il 2012

E’ partita ieri alle 12 l’ operazione Wi-fi a scuola. Come sappiamo il progetto era stato presentato lo scorso 20 aprile e vedrà il suo completamento entro la fine del 2010. Nel frattempo si prevede che, nei prossimi sei mesi, 5.000 scuole saranno collegate a internet,in modalita’ Wi-fi, e che a fine 2012 lo saranno tutti i circa 14.000 istituti scolastici italiani.

Al momento si sono prenotate già 800 scuole per avere il kit Wi-fi  ha sottolineato il ministro Brunetta aggiungendo che il sogno e’ ‘dare il kit a tutti i bambini delle scuole elementari‘.

L’investimento che dovrà sostenere lo stato per l’operazione Wifi è di 5 milioni di euro per la prima fase. Seguirà un costo di altri 5 milioni di euro per l’anno prossimo con l’impegno del ministro Brunetta a incrementare le risorse anche attraverso la ricerca di sponsor.
Ogni impianto costa circa 1000 euro e l’introduzione del Wifi servirà ai docenti per la didattica, per l’utilizzo della lavagne interattive e anche per gli studenti.

Fonte: http://mobile.hdblog.it

Arriva SafeHouse, nuovo WikiLeaks

E stato appena lanciato un nuovo concorrente di WikiLeaks, si chiama SafeHouse e promette di pubblicare in maniera sicura e anonima corrispondenze, email, banche dati, riguardanti il lavoro del governo americano. SafeHouse, o meglio WSJleaks, è la prima delle alternative editoriali al modello più anarchico lanciato da Julian Assange. Lungi dal seguire puramente scopi etici, il progetto conta di guadagnare seguendo la scia del predecessore, con le informazioni raccolte dai tracker in giro per il mondo. Kevin Delaney, managing editor di WSJ.com ha spiegato che “il progetto è nato dopo varie discussioni tra i redattori. Abbiamo già varie fonti che ci forniscono documenti, sia cartacei che telematici, su temi politici internazionali. Il passo successivo era quello di creare una struttura che si occupasse solo di questo: ricevere e pubblicare tali documenti, rilevanti per l ‘ economia politica americana e internazionale.

Sebbene SafeHouse affermi di godere di un sistema interno di protezione dei documenti, sembra che la realtà dei fatti sia diversa. Qualche giorno fa l’esperto di sicurezza Jacob Appelbaum, si è scagliato contro SafeHouse su Twitter a poche ore dal lancio, denunciando numerose falle di sicurezza nel sistema centrale. In particolare la denuncia di Appelbaum si basava sul fatto che il sistema di protezione Web non sia realmente attivato sul sito di SafeHouse. Quando un utente va all’indirizzo, si offre un link alla versione protetta Https senza però usare un meccanismo chiamato Strict Transport Security che consente di passare ad una connessione cifrata. Qualunque hacker alle prime armi può usare strumenti per far credere ad un utente, che potenzialmente sta caricando documenti e informazioni rilevanti, di utilizzare la versione cifrata quando invece il traffico è completamente aperto. Un ulteriore critica riguarda il fatto che sul sito di SafeHouse si legge della possibilità di rivelare qualsiasi informazione sulle fonti alle autorità competenti, lasciando più di un dubbio sul perché un utente dovrebbe mettersi in pericolo in questo modo. La scelta di creare un modello basato su WikiLeaks da parte del WSJ sorprende se si considera che il giornale ha una delle posizioni più conservatrici e filo-governative degli Usa. Già in passato aveva rifiutato di pubblicare alcuni cables svelati da Assange che era stato bollato come un “nemico degli Stati Uniti”.

Il rischio, secondo opinionisti americani, è che lo strumento messo in azione dal WSJ possa diventare un mezzo per accontentare diverse parti. Prima di tutto i novelli investigatori della Rete che avranno la reale possibilità di inviare notizie scottanti sull’operato del governo, ma anche le stesse autorità di controllo che vedrebbero nella direzione del WSJ un potente alleato per rendere note solo alcune notizie, quelle meno compromettenti. A questo proposito, la reticenza del WSJ nei confronti della trasparenza potrebbe essere un punto a favore per coloro che desiderano ridurre al minimo i danni collaterali. Sembrerebbe che il mercato delle rivelazioni si stia spostando verso un campo più strettamente commerciale e decisamente orientato alla targetizzazione dello scoop. In ogni caso verso un nuovo capitolo del giornalismo post WikiLeaks.

Fonte: http://www.lastampa.it

Apps mobili, un business da 3,8 miliardi di dollari. Tre quarti sono di Apple

Una torta ambita. Una torta che fa gola a chi il mercato delle apps l’ha inventato (Apple) e a chi sta cercando di diventarne ora il riferimento (Google) ma anche a chi, negli smartphone, ha giocato e vuole giocare un ruolo da protagonista (Microsoft, Nokia, Research in Motion).

Il business delle applicazioni è più che mai una voce chiave dell’industria mobile e dalle rilevazioni di IHS ISuppli arriva un’ulteriore conferma della sua grande dinamicità. Il giro d’affari delle apps dovrebbe infatti crescere quest’anno di oltre il 77% rispetto al consuntivo 2010 per toccare quota 3,8 miliardi di dollari. Stando agli analisti della società di ricerca californiana, il download di giochi e software di vario genere conoscerà quindi un’ulteriore sviluppo nei prossimi due anni per arrivare, a fine 2014, a valere qualcosa come 8,3 miliardi di dollari. Una cifra dieci volte superiore a quella registrata nel 2009.

L’App Store di Apple, per quanto alcuni studi lo diano in regresso rispetto all’Android Marketplace (tanto che il numero di apps di quest’ultimo potrebbe essere superiore a quello delle apps per iPhone già da luglio), genererà nel 2011 circa i tre quarti di questo mercato, e più precisamente 2,6 miliardi di dollari, il 63% in più di quanto registrato l’anno passato. Per il negozio di applicazioni di Google, invece, il salto sarà addirittura quadruplo ma con un valore nettamente inferiore a quello della rivale, e cioè 425 milioni di dollari. Per Rim e il suo BlackBerry App World e Nokia e il suo Ovi Store le cifre in gioco sono molto più ridotte e rispettivamente si parla di 279 milioni di dollari per la prima (comunque in salita del 69%) e di 201 milioni per la seconda. La grande variabile si chiama Windows Phone Marketplace: se il sodalizio fra la casa di Redmond e Nokia darà i frutti sperati è lecito pensare che una consistente parte del fatturato globale delle apps verrà prodotto dalla piattaforma di Microsoft.

A contribuire alla “apps mania” – saranno 18,1 miliardi i download quest’anno, rispetto ai 9,5 miliardi del 2010 e i 3,1 miliardi del 2009 – concorreranno secondo ISupply tanto le grandi media company come Time Warner, Walt Disney e News Corp quanto start up di successo come Rovio Mobile (la società norvegese che ha dato vita ad “Angry Birds”) e colossi dell’entertainment come Electronic Arts, che proprio in queste ore ha perfezionato l’acquisizione di Firemint, l’azienda australiana che produce giochi per cellulari cult come “Flight Control” ed “Real Racing”. E giusto per non farsi mancare nulla in fatto di popolarità, questo il commento finale degli analisti, le apps vivono anche delle battaglie legali che coinvolgono le grandi firme di questo mondo, vedi per esempio Apple e la causa mossa nei confronti di Amazon per il marchio App Store, utilizzato (secondo la casa di Cupertino) in modo improprio dal gigante dell’e-commerce per vendere applicazioni per telefonini.

Fonte: http://www.ilsole24ore.com

Pagina 16 di 33

Powered by WordPress & Tema di Anders Norén