È uno di quei record che rischiavano di sgattaiolare nelle pieghe della cronaca per riapparire poi, con l’andamento carsico dei piccoli grandi fenomeni, nei manuali di storia. Storia dei media, beninteso, che però sempre più si sovrappone alla storia tout court. Succede quindi che Britney Spears, megastar globale e sismografo vivente dello spirito del tempo, appare in un nuovo spot per una linea di abbigliamento che la sponsorizza. Camicie folk e gilet in finto montone, roba per cui le ragazzine vanno fuori di testa. E siccome sono abiti rivolti a loro, non alle mamme e tantomeno alle zie, l’attesissima “prima” non esordisce in tv e neppure sui siti classici. Farebbe così vecchio, così 2008. La première atterra su Facebook e viene fatta decollare di nuovo, ancora e ancora, su Twitter. Da Britney, che cita il marchio ogni volta che può, e anche quando c’entra poco o nulla (d’altronde è pagata per farlo). E dai suoi 2 milioni e mezzo di “followers”, i seguitori dell’ormai celebre sito di micro-blogging che aspettano trepidanti gli aggiornamenti sulle oscillazioni del suo umore e che, senza guadagnarci una lira, si trasformano in volenterosi uomini-sandwich digitali rilanciando i messaggi della loro beniamina. E del brand al quale è vincolata da miliardario contratto.
Solo oggi, dopo ben quattro giorni, uno sproposito secondo la cronologia internettiana, la pubblicità arriverà anche sul piccolo schermo. Mtv, per la precisione, l’ex canale giovane che a confronto oggi sembra nuovo come il chinotto.
I giovani si rivolgono ormai in prima battuta ai social network per prendere le decisioni su cosa comprare – spiega a Usa Today Charlene Li, fondatore della società di consulenza Altimeter Group – Se tu azienda non ci sei, non li raggiungerai”. È semplice e scontato: se cerchi adolescenti e ti presenti in una bocciofila o in una balera, ne uscirai deluso. Ogni demografia ha i suoi luoghi di incontro e i “non luoghi” telematici non fanno eccezione. Eppure è la prima volta che una campagna pubblicitaria importante riconosce di fatto che il sorpasso è avvenuto. Pensando prima al web 2.0 e poi al vecchio piccolo schermo.
Titolo del capitolo, quindi: “L’anno in cui le aziende preferirono i social media agli old media per vendere ai teenager”. La congiuntura economica, dal canto suo, spinge in questa direzione. Con la crisi, prevedono gli studi della National Retail Federation, i genitori americani spenderanno il 7,7% in meno rispetto al back-to-school dell’anno scorso, la stagione dello shopping che corrisponde al settembre del calendario gregoriano. Le aziende sanno che potranno fare affidamento su minori entrate e adeguano i budget pubblicitari di conseguenza. Bisogna sparare meno e mirare meglio. E per centrare i ragazzini non c’è posto migliore che i social network. Il fenomeno, in verità, sorpassa il loro perimetro anagrafico. Nel 2007, si apprende da un rapporto Forrester Research, la fetta di americani che usavano qualche social media era il 57 per cento, ora sono il 75. Due su tre vi trascorrono tempo e investono energie. Le compagnie hanno preso nota e organizzato una rapida controffensiva. L’anno scorso, per dire, American Eagle non appariva nemmeno sui radar di Twitter. Oggi la catena di abbigliamento basic ha varato un’intera squadra di specialisti, presi dal marketing e dalla pr, per coordinare la presenza strategica sui vari social network. Organizzando una serie di eventi interattivi, come la messa in palio dalla propria pagina Facebook, ogni ora del 6 agosto, un nuovo modello di denim.
Ovviamente è un esempio su cento. Non c’è praticamente marchio negli Stati Uniti che in qualche modo abbia a che fare con i giovani che non abbia approntato iniziative sui media sociali. Da J. C. Penney hanno aperto un canale su Facebook che permette ai ragazzi di esprimersi liberamente sui modelli delle nuova collezioni. Da Bebe, altro must dell’abbigliamento minorenne, gli utenti possono “appiccicare” i loro ritratti digitali sul corpo dei protagonisti di un video promozionale. Anche per loro c’è in ballo un paio di jeans “riserva” da 199 dollari. La Nike consente a chiunque di personalizzare le scarpe usando uno smartphone e poi “condividere” il risultato su Facebook. Se il vostro design piace potete diventare famosi. Staples, la principale catena di cartoleria, fa leva sul civismo, invitando a donare quaderni e penne per gli studenti che non se le possono permettere. La voce viene sparsa, neanche a dirlo, attraverso il passaparola del web 2.0. Gli avanguardisti crescono man mano che si consolidano i risultati.
Stando a un recente studio di Altimeter Group i marchi attivi sui social network hanno visto, nonostante la crisi generale, crescere i loro fatturati del 18%. Quelli che li hanno snobbati sarebbero stati puniti. Uno scenario che deve suonare convincente per le aziende statunitensi a giudicare dalla proiezione schizzata dagli analisti di Forrester. Gli investimenti pubblicitari su questi media dovrebbero esplodere da 455 milioni di dollari del 2008 a 3,1 miliardi entro il 2014. È la traiettoria di un razzo, non di un aereo.
Se i manager si fregano le mani, i genitori si grattano la testa. I loro figli sono bersagliati nel giardinetto elettronico dove si svolge buona parte della loro socializzazione. “I ragazzi si espongono di continuo su Facebook e Twitter – avverte Alissa Quart nel libro Branded: the Buying and Selling of Teenagers – e non vedono la differenza tra pubblicizzare se stessi ed essere bersaglio di pubblicità”. Vanno lì per fare amicizia, mettere in rete le loro passioni. Hanno le difese abbassate nei confronti di qualsiasi messaggio, commerciale incluso. Non si trovano nella condizione antagonistica delle pubblicità tradizionali: il cosiddetto “interruption marketing” che sospende il bacio tra i due protagonisti per costringerti ad ascoltare i vantaggi di un olio a bassa acidità. Questo è il regno morbido del “permission marketing”, in cui non subisci ma vai a cercartela, la pubblicità. I tariffari però non si fidano ancora e pagano, per le inserzioni sui social network, una piccola porzione di quanto sganciano per gli altri media. Perché sono convinti che ogni invadenza dei marchi, per quanto mite, stoni in uno spazio nato per altro.
Obiezioni che non sembrano scalfire invece coloro che usano Twitter e i suoi fratelli per la loro potenzialità di passaparola più che come supporto pubblicitario. Sono soprattutto le ditte piccole o familiari, avvezze al “conto della serva”, ad averlo capito. Non potrebbero mai permettersi di far promozione sui giornali e tantomeno in tv, quindi optano per il mezzo che coniuga meglio economicità e flessibilità. È il caso di Curtis Kimball e del suo carretto su ruote di crème brûlée a San Francisco. Senza neppure capire bene perché – tranne il fatto che in California ti guardano come un troglodita se non hai un identificativo Twitter – si è iscritto e ha accumulato 5.400 followers ai quali comunica dove potranno trovare il suo banchetto itinerante e le sue specialità del giorno. “Mi piacerebbe poter dire – ha confessato al New York Times – di aver avuto un’idea e una strategia molto buone ma la verità è che Twitter è stato essenziale nel mio successo”. Viva la sincerità. Lo stesso dicasi per Umi, un sushi restaurant della stessa città che decanta in 140 caratteri agli abbonati le meraviglie del tonno rosso che servirà in serata.
Facebook e YouTube restano, per il momento, portentosi buchi neri finanziari sostenuti da venture capitalist che bruciano miliardi nell’attesa della loro redditività. Lo stesso vale per Twitter che ha un modello di business ancora più indecifrabile. Eppure, qualche tempo fa, un hacker ha intercettato la corrispondenza elettronica di un dipendente con la moglie di un fondatore. Dentro c’era la previsione top secret sull’incremento dei ricavi dai 4,4 milioni di quest’anno ai 140 milioni dell’anno prossimo. L’azienda si è limitata a dire che sono calcoli vecchi. A prestare attenzione al video di Britney e ai dessert di San Francisco si comincia a capire da dove verrà una parte di quei soldi.
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