ROMA – Un computer e una connessione a internet possono cambiare la vita: forse non salvarla, ma renderla migliore sicuramente sì. Ne sono fortemente convinti i 180 soci di Informatici Senza Frontiere, onlus che dal 2005 opera nel settore informatico per portare un aiuto concreto a chi vive in situazioni di emarginazione e difficoltà. L’associazione è nata da un gruppo di manager veneti che hanno deciso di mettere le proprie conoscenze al servizio di una missione ben precisa: combattere il digital divide in tutte le sue forme, in Italia e all’estero, dagli ospedali alle carceri, dai luoghi del terremoto in Abruzzo a un piccolo centro di microcredito in Madagascar. Con risultati che possono “toccare il cuore”, racconta il presidente dell’associazione, Girolamo Botter.
L’associazione Informatici Senza Frontiere. Il quartier generale della onlus è in Veneto, a Treviso, ma negli anni sono state aperte delle sezioni in varie regioni d’Italia: in Lombardia, Piemonte, Toscana, Puglia, Calabria e nel Lazio. Oltre ai soci fondatori, fanno parte dell’associazione numerosi volontari, tra cui soprattutto informatici e programmatori, ma anche esperti del marketing e della comunicazione. Fianco a fianco, o più spesso con la mediazione del computer, queste persone “lavorano” nel loro tempo libero per cercare di sanare lo spreco di tecnologia nei paesi sviluppati: hardware erroneamente ritenuto rotto o obsoleto, conoscenze informatiche inutilizzate, software a costo zero in grado di automatizzare piccole operazioni quotidiane. Il tutto in stretta collaborazione con le aziende e il mondo accademico, nella convinzione che tutti, dal manager di successo allo studente unviersitario, possano giocare un ruolo importante nella battaglia contro l’isolamento tecnologico.
I progetti in Africa. “Una delle soddisfazioni più grandi – spiegailpresidente Girolamo Botter – l’abbiamo ottenuta con il software Open Hospital, sviluppato internamente da noi in collaborazione con gli allievi dell’Istituto Tecnico Volterra di San Donà di Piave. Si tratta di un sistema informatico in grado di facilitare le operazioni gestionali quotidiane di piccoli ospedali, dalle cartelle cliniche alla fornitura di medicinali”. Un aiuto grandissimo in zone povere e isolate, dove spesso tutto avviene con carta e penna da una tenda da campo.
Il software è stato installato e implementato in un ospedale di Angal, nel nord dell’Uganda, e in un piccolo ospedale di Matiri, nel Kenya, dove alcuni volontari volano periodicamente per controllare che tutto funzioni correttamente e che il personale medico sappia come usare il computer. L’attrezzatura tecnica – pc, stampanti, modem e tutto il resto – viene spesso comprata sul posto, così da evitare danni durante il trasporto e soprattutto contribuire allo sviluppo dell’economia locale. Dopo il successo di queste esperienze pilota, il sistema è stato installato in diverse altre realtà ospedaliere in Kenya, Afghanistan, Benin e Congo.
I piccoli internauti di Brescia. Un altro progetto ha coinvolto i pazienti del reparto oncologico pediatrico di Brescia: bambini malati di tumore costretti per mesi e mesi a vivere blindati tra le corsie di un ospedale. Informatici Senza Frontiere ha così pensato di rendere meno dura la loro permanenza nella struttura allestendo una vera e propria aula informatica, dotata di computer e connessione a internet a totale disposizione dei ragazzi. Alcuni volontari della onlus organizzano per loro corsi e attività ludiche basate sull’uso del pc: un modo per giocare e comunicare con l’esterno, studiare e fare ricerche in rete, leggere, ascoltare musica e non sentirsi troppo soli. “E’ incredibile come il mezzo informatico abbia cambiato la qualità di vita di questi bambini”, spiega ancora Botter. “Vedere la gioia e la curiosità nei loro occhi è stata la conferma più importante per la nostra missione”.
Detenuti hi-tech. In alcuni casi, l’informatica può anche trasformarsi in uno strumento di reinserimento nella società dopo lunghi periodi di detenzione. E’ questa l’idea di un altro progetto dell’associazione, “detenuti hi-tech”, in corso presso il carcere di Santa Bona a Treviso. L’iniziativa prevede attività formative di carattere informatico che vengono svolte all’interno del carcere, cui partecipano gruppi di detenuti seguiti da volontari ed esperti dei Centri Territoriali Permanenti. Nella struttura è stato realizzato anche un piccolo laboratorio tecnologico, dove i detenuti imparano a riparare hardware e componenti informatiche, intraprendendo un percorso professionale che può rivelarsi interessante anche dopo la messa in libertà.
L’intervento in Abruzzo. Informatici Senza Frontiere è presente anche in Abruzzo, dove all’indomani dell’emergenza, in collaborazione con la Protezione Civile, ha inviato volontari per capire come aiutare le popolazioni colpite dal terremoto a non soffrire troppo l’isolamento tecnologico. Già a fine aprile la onlus ha aperto una postazione con computer, stampante, scanner e accesso a internet presso la scuola San Panfilo nel piccolo paesino di Ocre, a sud dell’Aquila. Sempre nello stesso comune è stato allestito un secondo internet point aperto a tutti, mentre altre postazioni sono state aperte presso il Centro di accoglienza Cavalletto e in altre località devastate dal sisma.
Altri progetti. I volontari dell’associazione sono all’opera per aiutare molte altre persone: dai clochard di Mestre, per i quali hanno organizzato un corso di informatica, agli operatori di microcredito del Madagascar, che grazie a loro possono lavorare tramite pc e software open source gratuiti. La sfida più complicata, spiega Botter, sono come al solito i fondi: “Abbiamo bisogno di soldi per poter continuare la nostra attività ed estenderla ad altre realtà: comunicare è un’esigenza fondamentale per tutti, che viene subito dopo i bisogni primari come mangiare, bere, dormire, avere un posto sicuro in cui stare. Per questo invitiamo le aziende e i singoli a dare il loro contributo, in termini di donazioni, creatività o hardware inutilizzato. D’ora in poi sarà anche possibile adottare un progetto: ci sono tanti modi per fare la propria parte, a volte basta solo volerlo”.
Fonte: laRepubblica.it