ho 39 anni, mi occupo di pubblicità da 17 anni, e da più di 16 sono un imprenditore.
Un piccolo imprenditore: la mia agenzia oggi conta poco più di 40 persone. Ma un imprenditore che nel suo piccolo, insieme ai suoi soci, si dà un gran da fare, da sempre.
Le scrivo in questo inizio d’autunno perché, come mi accade sempre, sono tornato dalle vacanze estive pieno di voglia di fare, di inventare, di creare. Ma la prima mail che ho letto è stata una circolare del mio commercialista su “riforma del lavoro, nuova deducibilità costi auto e nuova deducibilità contributo SSN dei premi assicurativi delle auto”. L’ho letta e subito l’effetto adrenalina estiva è passato.
E mi chiedo – molto ingenuamente, lo so – se le domande che io e i miei soci continuiamo a porci siano mai transitate sulla scrivania del suo Governo.
Non avrei mai pensato di rivolgermi direttamente al Presidente di qualsiasi Governo del passato, ma oggi è diverso. Oggi c’è una persona onesta e interessata al bene dell’Italia, questo è quello che penso.
E allora dico: ma lo sa che ci sta passando la voglia?
Nell’illusorio dubbio che lei non lo sappia, e certi che le interessi sapere perché, ecco le nostre domande, ognuna con un piccolo commento per contestualizzare.
Magari le arriveranno in qualche modo. La rete – si dice – è democratica e potente. O magari non le leggerà, ma potranno servire a verificare se qui in giro siamo gli unici a porcele senza trovare risposta.
1. È davvero indispensabile continuare a tassare i costi che le aziende sostengono? Non sarebbe più giusto, sano e perfino educativo aumentare – se proprio serve, e so che serve – le tasse sui profitti?
Parlo dell’IRAP (che tutti quelli che vendono servizi odiano visceralmente, perché del tutto iniqua e disincentivante soprattutto verso le assunzioni del personale) ma anche delle riprese fiscali. Il messaggio che passa (e che viene rafforzato dalle piccole ma significative modifiche alle soglie di deducibilità di alcuni costi) è questo: “meno assumi persone, meno paghi di tasse. Meno spendi e consumi, meno paghi di tasse. Visto che con la crisi sei già tentato di tagliare, con questi incentivi non puoi tirarti indietro”. Non sarebbe invece più sensato e utile per tutti (e per l’occupazione prima di tutto) invitare le aziende che riescono ancora a crescere in fatturato a reinvestire tutto il loro margine in persone e servizi, invece di fare il contrario?
2. È producente togliere a un piccolo imprenditore la possibilità di avvalersi di collaborazioni, o renderle impraticabili per i loro costi, e non fornire alcun incentivo all’inserimento del personale, proprio in un momento come questo?
È il Governo che scrive le regole, ma penso che la cecità sia anche dei sindacati. Qualche lavoratore dovrebbe dirglielo, che a causa delle continue strette sulle forme contrattuali tra un po’ le imprese di servizi (quelle che vivono esclusivamente del lavoro delle persone) si troveranno costrette e ridurre il personale, creare nuovi disoccupati, chiedere un extra sforzo ai pochi dipendenti che si potranno permettere. Ma non ne leggo, non ne sento parlare. Se si chiude una fabbrica si va in piazza, se una legge ha come effetto collaterale quello di bruciare migliaia e migliaia di opportunità per i singoli allora non se ne dice nulla. Invece bisogna dirne. Per capire di cosa parlo, io oggi ho un cliente che mi firma un contratto di un anno per gestirgli la pagina Facebook. Ho bisogno di un collaboratore che, per quel progetto specifico, mi dia una mano. Non posso. Se è un ragazzo che sta finendo l’università non posso dargli 800 euro al mese (che gli farebbero un gran comodo, lo inserirebbero in un mondo lavorativo, lo aiuterebbero a formarsi un’esperienza rivendibile su un ambito in forte crescita). Invece non posso.
La partita IVA non va bene se fattura solo a me. Il contratto a progetto prevede che non abbia nessuno a cui rispondere (invece il cliente è dell’Agenzia, e lui deve collaborare con il team creativo e strategico, assunto e ben pagato).
E se lo assumo a tempo determinato devo dargli minimo 1.000 euro, con contributi aumentati (perché il tempo determinato è cattivo) che portano il costo della sua prestazione per un anno a 27.000 euro. Insostenibile per un singolo progetto. E soprattutto ingiusto come costo per un ragazzo che non ha mai lavorato prima: non per snobismo, ma perché uno come lui deve essere ben seguito. E seguire e formare una persona è un ulteriore importante costo per un’azienda. Non so cosa farò, probabilmente chiederò alle persone che ho già regolarmente nello staff di farsi qualche ora di lavoro in più, imparare cose che non sanno fare, assumendomi il rischio di un lavoro fatto peggio e soprattutto negando a un ragazzo fortunato (perché sa fare quello che chiede il mercato) l’opportunità di scongiurare il pericolo disoccupazione.
È davvero incredibile: noi come agenzia (e come noi molte altre a Milano) abbiamo molto bisogno di giovani svegli, magari al primo o secondo impiego, da formare e inserire in quest’area. Ci sono opportunità occupazionali, udite udite! Ma come facciamo? A queste condizioni dovremo selezionare solo gente che abbia già esperienza, perché rischiare con un novellino da formare non vale la pena.
Così chi ha già un lavoro lo può cambiare, chi non ce l’ha rimane alla finestra. È così che si rilancia l’economia? Sarò stupido io, ma mi sembra di no. Invece di incentivare gli inserimenti, invece di creare opportunità per i ragazzi più giovani, si fa il contrario.
P.S., già che ci sono: come faccio a pagare una collaboratrice che merita 8.000 euro per un lavoro (fatto da casa sua in due mesi)? Lei fa un altro mestiere, non posso chiederle di aprire la partita Iva solo per me, per un una tantum!
La pagherò allora solo 5.000, il resto mancia, peggio per lei. Possibile che nessuno si accorga che chi ci rimette sono i lavoratori? E se anche fossero le imprese, sarebbe meglio?
3) E infine la domanda più importante: chi me lo fa fare? Fare l’imprenditore, rischiare del proprio per creare un’impresa, per dare posti di lavoro, non è qualcosa che dovrebbe essere incentivato e premiato?
Invece ci sentiamo puniti. Quando dopo un anno duro come il 2011 tiriamo le somme, verifichiamo che – in controtendenza – siamo cresciuti del 20% in fatturato e del 20% in numero di persone impiegate, chiudendo un bilancio con quasi il 10% di utile lordo, noi vorremmo festeggiare. Ma se poi il 75% di questo utile lordo viene versato in tasse (e avendo l’80% dei costi fissi come costi del personale, di contributi ne abbiamo già versati allo Stato per oltre il 40% del nostro fatturato) la voglia un po’ ci passa.
Quando poi gli spiccioli che avanzano vengono distribuiti, ecco che vengono di nuovo tassati.
Ma non è nemmeno questo. Qualche spicciolo è meglio di niente, e se c’è bisogno di pagare l’80% di tasse sugli utili per qualche anno (sperando non sia sempre così) può anche andare bene, tappandosi il naso e sentendosi parte di una comunità che ha bisogno del nostro aiuto come quello di tutti. Ma se per caso nel 2012 dovessimo chiudere un bilancio in pareggio, perché invece di chiudere il portafoglio, ridurre lo staff e puntare al profitto a breve termine avremo deciso – da buoni padri di famiglia, come ci chiede il codice civile – di continuare a investire in attesa di tempi migliori?
Nell’attesa di questi tempi migliori, meglio evitare alle persone di lavorare il doppio allo stesso costo (come fanno altri nel nostro settore per sopravvivere), accettando l’obiettivo del pareggio, per arrivare a fine anno a dirci “bravi, è andata, abbiamo fatto quadrare i conti, non è un anno per portarsi a casa dividendi ma l’agenzia è cresciuta ancora”?
Ma se davvero arrivassimo così a fine anno, lo Stato si congratulerebbe, ci ringrazierebbe, ci premierebbe? Ci incentiverebbe a fare ancora di più e meglio l’anno dopo? No. Ci punirebbe.
Ipotetico utile lordo 1.000 euro, perdita dopo le tasse di 100.000 euro. L’IRAP di cui sopra. Le riprese fiscali di cui sopra. 100.000 euro (dopo averne fatturati 3.500.000, e spesi altrettanti) che tireremmo fuori di tasca nostra, noi imprenditori. Senza averli, perché l’anno prima – che è andato meglio – abbiamo dato tutto in tasse.
Siamo tre soci, ognuno di noi potrebbe avere lo stesso stipendio (o qualcosa di più) lavorando come manager per una multinazionale. Chissà se non sceglieremo quella strada, alla fine.
E poi ai 40 dipendenti che lavorano con noi cosa racconteremo? Che fare impresa non ci conviene? Che si cercassero un nuovo impiego, e buona fortuna, visto che lavorano in una industry, quella della pubblicità, che continua a tagliare posti di lavoro? “Ma come?”, ci risponderebbero. “Abbiamo preso nuovi clienti, fatturato di più, chiuso in (piccolo) utile. Abbiamo visto arrivare nuovi colleghi, licenziati da altre grandi agenzie. E ci dite che volete chiudere? Non è giusto, non fatelo”.
Per questo, fino a oggi, non lo abbiamo fatto né abbiamo progettato di farlo. Ma basta, per favore, metterci alla prova con questa disattenzione. Se è vero che in Italia il mondo del lavoro è fatto da tante piccole imprese, che a botte di 40 persone alla volta danno stipendi a milioni di persone, provate a dare qualche pacca sulle spalle agli imprenditori che fanno la loro parte. Tassate al 90% gli utili, se volete. Ma non fateci passare la voglia di lavorare, di rischiare, di investire, di assumere, di fatturare. Di fare piccola impresa.
Ecco tutto, caro Presidente Monti. Come facciamo? Quando inizieremo a vedere piccoli segnali nella direzione dell’incentivazione all’impiego, al consumo, alla sana gestione?
Io non ci credo che questa non sia una priorità per tutti. Iniziamo almeno a parlarne?
Se serve una mano per comunicare, noi siamo a disposizione. Naturalmente gratis!
Emanuele Nenna
Fonte: SPOT and WEB