L’Estonia è la più libera e l’Iran quella meno, mentre la repressione più sofisticata avviene in Cina e nei prossimi 12 mesi la situazione peggiorerà in Russia, Venezuela, Giordania e Zimbabwe: sono le conclusioni contenute nel rapporto «Freedom on the Net 2011», nel quale la Freedom House di Washington denuncia le violazioni dei diritti universali sul web.

Lo studio divide il pianeta in nazioni libere, non libere e parzialmente libere, prendendo ad esempio del primo gruppo otto Paesi – Estonia, Stati Uniti, Germania, Australia, Gran Bretagna, Italia, Sud Africa e Brasile -, fra i quali quello di Tallinn emerge come il maggiore garante di libertà di accesso, diffusione di contenuti e rispetto dei diritti degli utenti. Gli Stati Uniti sono in seconda posizione, perché sebbene l’accesso al web rimanga in gran parte «più libero e giusto rispetto al resto del mondo», soprattutto grazie ad una serie di sentenze a difesa dei diritti degli utenti, hanno un tallone d’Achille nell’estensione della rete a banda larga e nella velocità di connessione, senza contare che i poteri di sorveglianza del governo «preoccupano». Fra i «Paesi liberi» esaminati, l’Italia è al terz’ultimo posto, perché «negli ultimi anni il governo ha introdotto diverse leggi che pongono serie minacce alla libertà online», come ad esempio «rendere i siti responsabili per i video messi online dagli utenti» e l’«obbligo di onerose registrazioni per le comunicazioni online». In particolare, «la tendenza a restringere la libertà su Internet è frutto della struttura della proprietà dei media in Italia, dove il primo ministro Silvio Berlusconi possiede, direttamente o meno, un grande conglomerato privato» che «lo può incentivare a restringere il libero flusso di informazioni online per ragioni politiche o per condizionare la competizione sugli spettatori dei video online». Il rapporto sottolinea anche che in Italia Internet raggiunge il 49 per cento della popolazione, ovvero un livello più alto della media del resto del mondo, ma considerevolmente più basso degli altri Paesi industrializzati. Ciò che invece distingue l’Italia è guidare la classifica Ocse sulla penetrazione dei cellulari.

Il gruppo dei Paesi non liberi include 11 nazioni, la cui classifica ascendente sulla base delle restrizioni è: Thailandia, Bahrein, Bielorussia, Etiopia, Arabia Saudita, Vietnam, Tunisia, Cina, Cuba, Birmania e Iran. L’ultimo posto va a Teheran, perché «sin dalle proteste che seguirono le dubbie elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, le autorità hanno condotto una dura campagna contro la libertà su Internet, inclusa la decisione di rallentarne la velocità e di adoperare gli hackers per neutralizzare i siti dell’opposizione». E inoltre «un crescente numero di blogger viene minacciato, arrestato, torturato e messo in cella di isolamento» fino all’estremo di «uno di loro deceduto in prigione».

In fondo alla classifica anche i generali birmani e la Cuba di Raúl Castro, ma è alla Cina che il rapporto dedica l’analisi più approfondita, perché «Pechino ha messo in piedi il più sofisticato sistema di controllo di Internet». Si tratta di un complesso di misure «divenute più restrittive negli ultimi anni» che vedono Facebook e Twitter «bloccati in maniera permanente» portando allo sviluppo di «alternative locali ostacolate dalla censura». Nella regione dello Xinjiang, teatro di una rivolta etnica, l’interruzione di Internet è durata «un mese intero» ed almeno 70 persone sono state arrestate per aver commesso «crimini online» diffondendo informazioni sulla repressione.

Le nazioni «parzialmente libere» prese in esame dal rapporto sono invece 18, e fra loro spicca la Russia di Dmitry Medvedev, per la possibilità di un «deterioramento grave nei prossimi 12 mesi» a seguito dell’entrata in vigore di leggi restrittive della libertà online per molti versi simili a quelle del Venezuela di Hugo Chavez. Fra i Paesi che rischiano di diventare «non liberi» c’è il Pakistan, dove lo scorso anno il governo ha creato un comitato ad hoc che può decidere di bloccare i siti sulla base di «offese molto vaghe allo Stato o alla religione».

Riguardo alla repressione delle libertà online, Freedom House individua dei comportamenti omogenei da parte di più regimi che aumentano la censura in risposta alla maggiore diffusione dei social network, spingendosi ad arrestare i blogger, lanciando cyberattacchi contro i siti dissidenti e sfruttando la struttura centralizzata della rete per limitarne gli accessi.

Fonte: http://www.lastampa.it