Una sveglia che suona prima o dopo a seconda del traffico e magari chiama il taxi; l’auto che vi dice se c’è un parcheggio a destinazione; la lavatrice che segnala se la vostra camicia è fuori moda. Viaggio nei laboratori dove il futuro è così vicino che qualcuno teme che la privacy sia finita

IN UN FUTURO non troppo lontano, sarà la sveglia a decidere a che ora ci dobbiamo alzare dal letto. Collegata a Internet, anticiperà o posticiperà la suoneria a seconda delle condizioni del traffico. Se lo riterrà utile, ci prenoterà anche un taxi. I frigoriferi ci segnaleranno la nostra dieta ideale e compreranno online il cibo. La lavatrice ci dirà quando i nostri vestiti sono fuori moda. Guideremo automobili che dialogano con la strada che dialoga con i semafori e i guardrail. Correremo con scarpe in grado di analizzare in tempo reale la nostra performance. Da casa, con uno smartphone, potremo prenotare un parcheggio o guidare un trattore irrigatore a cento chilometri di distanza. Quasi tutti gli oggetti intorno a noi saranno in rete. Una televisione, una bicicletta, un paio di sci, un’arma da fuoco. Tutto, o quasi, avrà un indirizzo Ip, un intelligenza propria, sarà connesso, sarà tracciabile. Succederà presto. Sta già succedendo.

È l’Internet delle Cose, il Web 3.0, il percorso evolutivo della Rete che più di altri cambierà la vita degli utenti. I più avanzati laboratori informatici del mondo ci stanno lavorando su, per anticiparne i campi di applicazione. Negli Stati Uniti il progetto di sviluppo è in mano a Bob Kahn, l’uomo senza il quale Internet non esisterebbe (è stato lui, insieme a Vinton Cerf, a inventare negli anni Settanta il protocollo di trasmissione dati su cui si regge tutto il Web). Il governo cinese ci sta investendo miliardi di dollari. Una corsa d’avanguardie che ha la sua spinta propulsiva nella previsione fatta a settembre dalla Intel Corporation, il colosso internazionale dei microprocessori: “Entro il 2015 ci saranno 15 miliardi di dispositivi online, un terzo dei quali saranno sistemi “intelligenti” “. Capaci cioè di raccogliere, identificare, elaborare, scambiare informazioni.

L’ingegnere Alfonso Fuggetta prova a raccontare il futuro disegnandolo sulla lavagna. “Bastano un microprocessore da cinque euro, un sensore e un piccolo sistema di connessione, basato sul chip Telit da 10-15 euro, per mettere intelligenza in un oggetto e collegarlo alla Rete”, spiega mentre scarabocchia frecce e nuvole col pennarello nell’aula riunioni del Cefriel, il centro di eccellenza del Politecnico di Milano di cui è direttore scientifico. “Internet delle cose, semplificando, è questo: oggetti reali che raccolgono dati sull’ambiente circostante, li elaborano e dialogano virtualmente tra loro grazie a microantenne 3G, al wi-fi, al Gps”. Dal piccolo dispenser di giornali dotato di Gps che avverte i distributori quando le copie sono terminate all’automobile che interagisce con la strada disseminata di sensori, gli scenari che si aprono sono enormi. Tanto più vasti quanto più la tecnologia continuerà a miniaturizzarsi.

In Italia, secondo l’ultima ricerca dell’Osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano, ci sono 3,9 milioni di oggetti intelligenti interconnessi, il 13 per cento in più rispetto al 2010, e 34 milioni di contatori elettronici. La maggior parte delle applicazioni più evolute sono però allo stato embrionale. Prototipi che hanno a che fare con tutto ciò che è smart: smart home, smart car, smart energy, smart agricolture, eHealth (monitoraggio real time di parametri vitali e localizzazione dei pazienti). E soprattutto smart city, la città intelligente, a misura di cittadino, dove gli spostamenti sono facili, vivibile, integrata, fluida.

Ad esempio, come sarà Londra tra dieci anni? “Avrà un sistema di trasporto urbano del tutto rivoluzionato grazie all’Internet delle cose  –  spiega Maurizio Pilu, capo dipartimento dell’Agenzia innovazione del Regno Unito  –  I treni della metropolitana avranno sensori che segnaleranno ai passeggeri in stazione in quale carrozza ci sono posti vuoti. I parcheggi saranno in Rete, così da avere la certezza di trovare un posto prima di mettersi in macchina. I semafori agli incroci si coordineranno per smaltire il traffico automaticamente. Sempre che le infrastrutture della città mettano a disposizione i propri dati”.

Ecco dunque qual è uno degli ostacoli che in Occidente frena la crescita del Web 3.0, permettendo alla Cina di ricoprire il ruolo di leader mondiale. Ferrovie, parcheggi, strade, centri commerciali, trasporti pubblici, ancora non condividono i dati sull’utenza. C’è un motivo: si chiama privacy, protezione dei dati sensibili. Uno scoglio da superare più alto dell’esaurimento degli indirizzi Ip a cui si sta andando incontro (tant’è che la Rete passerà dal protocollo ipv4 all’ipv6, che ne moltiplicherà a dismisura la capacità di accessi).

Perché lato oscuro del Web 3.0 non sfugge a nessuno. Se tutti gli oggetti intorno a noi e addosso a noi saranno in rete, saremo tracciati in ogni momento. Un corollario che lascia addosso qualcosa in più di una vaga inquietudine. Gerardo Costabile, presidente dell’Iisfa Italia, l’istituto che promuove l’informatica forense, non ci gira intorno: “L’Internet delle Cose sarà il compimento della profezia del Grande Fratello di Orwell. Saremo tracciati da quello che indosseremo, dalle telecamere di sorveglianza, dai mezzi su cui ci sposteremo, dai negozi dove entreremo. Un bel vantaggio per le polizie”. A meno che le aziende che stanno mettendo sensori e antennine 3G negli oggetti non inseriscano interruttori per disattivare il tracciamento. “Troppo costoso  –  commenta Costabile  –  più probabile che nasca una rete parallela anonima”. Per saperlo, occorre aspettare. Con la consapevolezza che in questo campo le previsioni a lungo termine sono assai scivolose. “Anche gli sceneggiatori di Ritorno al futuro si sbagliavano  –  chiosa il professor Fuggetta, ingegnere col pallino dei film culto anni Ottanta  –  pensavano che nel 2015 ci sarebbero state le macchine volanti, ma non erano riusciti a immaginare il ben più semplice telefono cellulare”.

Fonte: Repubblica.it