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Categoria: CuRiOsItA’ Pagina 8 di 23

Lettera al presidente Monti da un piccolo imprenditore della pubblicità

Caro Presidente Monti,

ho 39 anni, mi occupo di pubblicità da 17 anni, e da più di 16 sono un imprenditore.
Un piccolo imprenditore: la mia agenzia oggi conta poco più di 40 persone. Ma un imprenditore che nel suo piccolo, insieme ai suoi soci, si dà un gran da fare, da sempre.
Le scrivo in questo inizio d’autunno perché, come mi accade sempre, sono tornato dalle vacanze estive pieno di voglia di fare, di inventare, di creare. Ma la prima mail che ho letto è stata una circolare del mio commercialista su “riforma del lavoro, nuova deducibilità costi auto e nuova deducibilità contributo SSN dei premi assicurativi delle auto”. L’ho letta e subito l’effetto adrenalina estiva è passato.
E mi chiedo – molto ingenuamente, lo so – se le domande che io e i miei soci continuiamo a porci siano mai transitate sulla scrivania del suo Governo.
Non avrei mai pensato di rivolgermi direttamente al Presidente di qualsiasi Governo del passato, ma oggi è diverso. Oggi c’è una persona onesta e interessata al bene dell’Italia, questo è quello che penso.
E allora dico: ma lo sa che ci sta passando la voglia?
Nell’illusorio dubbio che lei non lo sappia, e certi che le interessi sapere perché, ecco le nostre domande, ognuna con un piccolo commento per contestualizzare.
Magari le arriveranno in qualche modo. La rete – si dice – è democratica e potente. O magari non le leggerà, ma potranno servire a verificare se qui in giro siamo gli unici a porcele senza trovare risposta.

1. È davvero indispensabile continuare a tassare i costi che le aziende sostengono? Non sarebbe più giusto, sano e perfino educativo aumentare – se proprio serve, e so che serve – le tasse sui profitti?
Parlo dell’IRAP (che tutti quelli che vendono servizi odiano visceralmente, perché del tutto iniqua e disincentivante soprattutto verso le assunzioni del personale) ma anche delle riprese fiscali. Il messaggio che passa (e che viene rafforzato dalle piccole ma significative modifiche alle soglie di deducibilità di alcuni costi) è questo: “meno assumi persone, meno paghi di tasse. Meno spendi e consumi, meno paghi di tasse. Visto che con la crisi sei già tentato di tagliare, con questi incentivi non puoi tirarti indietro”. Non sarebbe invece più sensato e utile per tutti (e per l’occupazione prima di tutto) invitare le aziende che riescono ancora a crescere in fatturato a reinvestire tutto il loro margine in persone e servizi, invece di fare il contrario?

2. È producente togliere a un piccolo imprenditore la possibilità di avvalersi di collaborazioni, o renderle impraticabili per i loro costi, e non fornire alcun incentivo all’inserimento del personale, proprio in un momento come questo?
È il Governo che scrive le regole, ma penso che la cecità sia anche dei sindacati. Qualche lavoratore dovrebbe dirglielo, che a causa delle continue strette sulle forme contrattuali tra un po’ le imprese di servizi (quelle che vivono esclusivamente del lavoro delle persone) si troveranno costrette e ridurre il personale, creare nuovi disoccupati, chiedere un extra sforzo ai pochi dipendenti che si potranno permettere. Ma non ne leggo, non ne sento parlare. Se si chiude una fabbrica si va in piazza, se una legge ha come effetto collaterale quello di bruciare migliaia e migliaia di opportunità per i singoli allora non se ne dice nulla. Invece bisogna dirne. Per capire di cosa parlo, io oggi ho un cliente che mi firma un contratto di un anno per gestirgli la pagina Facebook. Ho bisogno di un collaboratore che, per quel progetto specifico, mi dia una mano. Non posso. Se è un ragazzo che sta finendo l’università non posso dargli 800 euro al mese (che gli farebbero un gran comodo, lo inserirebbero in un mondo lavorativo, lo aiuterebbero a formarsi un’esperienza rivendibile su un ambito in forte crescita). Invece non posso.
La partita IVA non va bene se fattura solo a me. Il contratto a progetto prevede che non abbia nessuno a cui rispondere (invece il cliente è dell’Agenzia, e lui deve collaborare con il team creativo e strategico, assunto e ben pagato).
E se lo assumo a tempo determinato devo dargli minimo 1.000 euro, con contributi aumentati (perché il tempo determinato è cattivo) che portano il costo della sua prestazione per un anno a 27.000 euro. Insostenibile per un singolo progetto. E soprattutto ingiusto come costo per un ragazzo che non ha mai lavorato prima: non per snobismo, ma perché uno come lui deve essere ben seguito. E seguire e formare una persona è un ulteriore importante costo per un’azienda. Non so cosa farò, probabilmente chiederò alle persone che ho già regolarmente nello staff di farsi qualche ora di lavoro in più, imparare cose che non sanno fare, assumendomi il rischio di un lavoro fatto peggio e soprattutto negando a un ragazzo fortunato (perché sa fare quello che chiede il mercato) l’opportunità di scongiurare il pericolo disoccupazione.
È davvero incredibile: noi come agenzia (e come noi molte altre a Milano) abbiamo molto bisogno di giovani svegli, magari al primo o secondo impiego, da formare e inserire in quest’area. Ci sono opportunità occupazionali, udite udite! Ma come facciamo? A queste condizioni dovremo selezionare solo gente che abbia già esperienza, perché rischiare con un novellino da formare non vale la pena.
Così chi ha già un lavoro lo può cambiare, chi non ce l’ha rimane alla finestra. È così che si rilancia l’economia? Sarò stupido io, ma mi sembra di no. Invece di incentivare gli inserimenti, invece di creare opportunità per i ragazzi più giovani, si fa il contrario.
P.S., già che ci sono: come faccio a pagare una collaboratrice che merita 8.000 euro per un lavoro (fatto da casa sua in due mesi)? Lei fa un altro mestiere, non posso chiederle di aprire la partita Iva solo per me, per un una tantum!
La pagherò allora solo 5.000, il resto mancia, peggio per lei. Possibile che nessuno si accorga che chi ci rimette sono i lavoratori? E se anche fossero le imprese, sarebbe meglio?

3) E infine la domanda più importante: chi me lo fa fare? Fare l’imprenditore, rischiare del proprio per creare un’impresa, per dare posti di lavoro, non è qualcosa che dovrebbe essere incentivato e premiato?
Invece ci sentiamo puniti. Quando dopo un anno duro come il 2011 tiriamo le somme, verifichiamo che – in controtendenza – siamo cresciuti del 20% in fatturato e del 20% in numero di persone impiegate, chiudendo un bilancio con quasi il 10% di utile lordo, noi vorremmo festeggiare. Ma se poi il 75% di questo utile lordo viene versato in tasse (e avendo l’80% dei costi fissi come costi del personale, di contributi ne abbiamo già versati allo Stato per oltre il 40% del nostro fatturato) la voglia un po’ ci passa.
Quando poi gli spiccioli che avanzano vengono distribuiti, ecco che vengono di nuovo tassati.
Ma non è nemmeno questo. Qualche spicciolo è meglio di niente, e se c’è bisogno di pagare l’80% di tasse sugli utili per qualche anno (sperando non sia sempre così) può anche andare bene, tappandosi il naso e sentendosi parte di una comunità che ha bisogno del nostro aiuto come quello di tutti. Ma se per caso nel 2012 dovessimo chiudere un bilancio in pareggio, perché invece di chiudere il portafoglio, ridurre lo staff e puntare al profitto a breve termine avremo deciso – da buoni padri di famiglia, come ci chiede il codice civile – di continuare a investire in attesa di tempi migliori?
Nell’attesa di questi tempi migliori, meglio evitare alle persone di lavorare il doppio allo stesso costo (come fanno altri nel nostro settore per sopravvivere), accettando l’obiettivo del pareggio, per arrivare a fine anno a dirci “bravi, è andata, abbiamo fatto quadrare i conti, non è un anno per portarsi a casa dividendi ma l’agenzia è cresciuta ancora”?
Ma se davvero arrivassimo così a fine anno, lo Stato si congratulerebbe, ci ringrazierebbe, ci premierebbe? Ci incentiverebbe a fare ancora di più e meglio l’anno dopo? No. Ci punirebbe.
Ipotetico utile lordo 1.000 euro, perdita dopo le tasse di 100.000 euro. L’IRAP di cui sopra. Le riprese fiscali di cui sopra. 100.000 euro (dopo averne fatturati 3.500.000, e spesi altrettanti) che tireremmo fuori di tasca nostra, noi imprenditori. Senza averli, perché l’anno prima – che è andato meglio – abbiamo dato tutto in tasse.
Siamo tre soci, ognuno di noi potrebbe avere lo stesso stipendio (o qualcosa di più) lavorando come manager per una multinazionale. Chissà se non sceglieremo quella strada, alla fine.
E poi ai 40 dipendenti che lavorano con noi cosa racconteremo? Che fare impresa non ci conviene? Che si cercassero un nuovo impiego, e buona fortuna, visto che lavorano in una industry, quella della pubblicità, che continua a tagliare posti di lavoro? “Ma come?”, ci risponderebbero. “Abbiamo preso nuovi clienti, fatturato di più, chiuso in (piccolo) utile. Abbiamo visto arrivare nuovi colleghi, licenziati da altre grandi agenzie. E ci dite che volete chiudere? Non è giusto, non fatelo”.
Per questo, fino a oggi, non lo abbiamo fatto né abbiamo progettato di farlo. Ma basta, per favore, metterci alla prova con questa disattenzione. Se è vero che in Italia il mondo del lavoro è fatto da tante piccole imprese, che a botte di 40 persone alla volta danno stipendi a milioni di persone, provate a dare qualche pacca sulle spalle agli imprenditori che fanno la loro parte. Tassate al 90% gli utili, se volete. Ma non fateci passare la voglia di lavorare, di rischiare, di investire, di assumere, di fatturare. Di fare piccola impresa.
Ecco tutto, caro Presidente Monti. Come facciamo? Quando inizieremo a vedere piccoli segnali nella direzione dell’incentivazione all’impiego, al consumo, alla sana gestione?
Io non ci credo che questa non sia una priorità per tutti. Iniziamo almeno a parlarne?

Se serve una mano per comunicare, noi siamo a disposizione. Naturalmente gratis!

Emanuele Nenna

Fonte: SPOT and WEB

Non è mai troppo tardi…per rifarsi il look!

Come promesso, abbiamo atteso il vostro ritorno dalle vacanze per accogliervi con un sito tutto nuovo, nei contenuti e nella veste grafica: questa volta non vi racconteremo la nostra ultima realizzazione, faremo molto di più…vi parleremo di noi, presentandovi il nostro nuovo sito.

Quando operare su Internet era ambizione di pochi, era tutto più semplice: i siti erano solo un mezzo per reperire contatti in maniera facile e comoda ma erano i canali tradizionali a farla da padrona e a decretare la fattibilità di un progetto. Insomma bastava esserci, anche se il sito era un semplice catalgo prodotti/servizi in formato elettronico, anche se il sito non parlava di te. Oggi non c’è nulla di più sbagliato…avere un sito che non rispecchi le reali caratteristiche aziendali significa sprecare tempo e denaro, indebolendo la Corporate Image.

Sono state queste convinzioni che ci hanno motivato a ristrutturarci pensando ad un sito internet in cui la nostra strategia di fare impresa poteva trovare riscontro nelle parole, nelle icone, nelle sfumature di colori e nelle sezioni completamente rinnovate. Tutto che parli di noi: della nostra storia, della mission, dello staff, dei nostri servizi, delle partnership, dei progetti, di voi Clienti…perchè siete il nostro migliore biglietto da visita.

L’aspetto grafico, volutamente solare e pulito, garantisce una navigazione veloce e piacevole, favorendo al contempo una consultazione quanto mai mirata dei contenuti. Abbiamo dato grande spazio a ciasun prodotto, con schede dettagliate che ne illustrano le caratteristiche, le Faq (Frequently Asked Question) più importanti, la possibilità di richiedere un preventivo gratuito e i Clienti che hanno scelto quella soluzione. Dalla sezione Portfolio potrete scorrere tutti i Clienti per cui abbiamo lavorato nel corso degli anni, divisi a seconda del servizio attivato. Le Case History sono i progetti più significativi, quelli che raccontano meglio il nostro lavoro grazie a piani di comunicazione integrata, mentre nella sezione Clienti abbiamo selezionato le storie di lungo successo, i Clienti con i quali abbiamo condiviso sfide e obiettivi e che ancora oggi continuano a riporre fiducia in Comma3. Il sito è ottimizzato per dispositivi Mobile e permette, inoltre, di restare sempre in contatto con le news dal mondo Comma3, grazie al nostro blog e alle nostre pagine ufficiali sui Social Network.

Da 14 anni nel mercato dei new media e delle web solutions e oggi con un nuovo look, vi invitiamo a navigare nel mondo Comma3, sicuri che l’attesa abbia aumentato il vostro desiderio di continuare a seguirci.

Buona visione!

Lo staff di Comma3 S.r.L.

Perché il Pulcino Pio è virale

Nessuno ama il Pulcino Pio, ma allora perché si diffonde? Il viral-dna del del tormentone dell’estate spiegato con la formula Create!

Vi piace il Pulcino Pio? Molti di voi diranno di no, io l’ho trovato subito geniale.

Sarà perché in questo periodo sono particolarmente sensibile alle filastrocche per bambini, sarà perché è un ottimo esempio di video virale, tematica oggetto della mia ricerca degli ultimi anni.

Per questo, nonostante sia al mare – e dal momento che, purtroppo, non riesco a staccare dal lavoro – dedico qualche momento serale ad una piccola riflessione sul perché del successo incredibile di questa filastrocca.

Lo faccio anche perché i ricercatori del Centro Studi Etnografia Digitale, dopo aver pubblicato una serie di dati sul fenomeno del Pulcino Pio, mi hanno chiesto di fare una piccola analisi in qualità di “esperto” di viral-dna, termine che ho coniato qualche anno fa per definire la capacità intrinseca di un contenuto di attecchire nel sistema sociale e concetto che spiego approfonditamente nelle 250 pagine del mio ultimo libro “Create! Progettare idee contagiose (e rendere il mondo migliore)”, edito da Sperling & Kupfer. A proposito l’avete letto vero?

Veniamo al dunque, cercherò di essere breve.

Il Pulcino Pio è un brano musicale lanciato da Radio Globo e supportato da un video virale realizzato (presumo per fini autopromozionali e in modalità no budget dato il logo in bella vista) da Medita, web agency che conosco e apprezzo per aver collaborato in passato con il Ninja LAB in diversi progetti.

Medita ha caricato il video su YouTube il 9 maggio 2012, giusto in tempo per la stagione estiva. Ad oggi, dopo quattro mesi, conta 20.505.320 visualizzazioni: numeri incredibili per il mercato italiano e per un video realizzato con finalità commerciali, che lo attestano in modo incontestabile come una incredibile case history di successo.

Quello che la “microfisica del potere” non spiega

Per comprendere la portata della diffusione virale di questo fenomeno vi rimando al link della ricerca degli amici del CSED  e ai dati da loro accuratamente ricavati attraverso strumenti di analisi molto sofisticati. Quello che convince poco del loro articolo è la riflessione sulle “dinamiche del potere” e la loro spiegazione sulle ragioni del successo del video. Per loro – e per Michel Foucault che citano – il successo del video si spiegherebbe più o meno in questo modo: il sistema mercantile cavalcato dagli avidi mercanti del marketing sarebbe in grado di trasformare in valore economico anche l’odio per un video.

In fondo questo sembrerebbero dire le conversazioni analizzate: nessuno ama il Pulcino Pio, ma allora perché si diffonde con tale forza? Sarà sicuramente colpa del sistema capitalista che tutto ingloba e che riesce a creare valore anche dall’immondizia. Insomma ci sarebbero dinamiche sociali che, muovendosi al di là della volontà e dell’apprezzamento degli attori in gioco, alimentano l’energia sociale che fa volare il Pulcino Pio.

Io credo, dal mio personale punto di vista, che  – oltre a Foucault, di cui da sempre apprezzo le teorie sulla “microfisica del potere” – e oltre l’apparenza delle dichiarazioni d’odio al Pulcino Pio ci sia qualcosa di più.

Lungi da me la volontà di sminuire la profondità dell’analisi dei filosofi marxiani, che ripeto conosco, ho studiato e apprezzato nel mio percorso di studi in sociologia (sono anch’io figlio dell’Università degli Studi di Milano e provengo dallo stesso glorioso dipartimento che alimenta l’ottimo lavoro del CSED, ci tengo a dirlo!). Tuttavia vorrei provare nelle poche righe di questo post a mettere in pratica un diverso punto di vista e lo vorrei fare anche in virtù di questa frase in cui mi sono imbattuto proprio oggi.

“La vera e unica scienza del Rinascimento era la conoscenza dell’anima… E allora perchè domando a voi, colleghi italiani, che avete nel sangue della vostra psiche il Rinascimento… Perchè mai venite a cercare nel Nord, nel marxismo e nell’esistenzialismo, in Adorno, in Marcuse, in Freud e sì anche in Jung… Quando la vostra terra custodisce una psicologia così straordinaria?” dice James Hillman in “L’anima del mondo e il pensiero del cuore” riferendosi alla profondità del pensiero di Plotino, Marsilio Ficino e Vico.

La formula Create applicata al Pulcino Pio

Quello che trovo interessante dal punto di vista del mio approccio più “deduttivo” e incentrato  su concetti derivati dalla psicologia transpersonale e archetipica, oltre che dalla sociologia, è provare ad applicare il modello Tensione/Emozione/Catarsi e la formula CREATE (Catarsi-Riusabilità-Emozione-Archetipi-Tensione-Elevazione) al Pulcino Pio e vedere se è in grado di dare conto del suo successo.

Il modello TEC (Tensione/Emozione/Catarsi), che spiego nel libro, ci dice che un contenuto virale deve fare leva su una tensione psico-culturale e liberare le emozioni provocando una catarsi nello spettatore.

Emozione, tensione, catarsi nel Pulcino Pio

Mi pare evidente che la Catarsi provocata dal video del Pulcino Pio sia proprio nel finale comico, ovvero il momento in cui il piccolo pulcino, diventato ormai odioso per il ripetersi infinito della filastrocca, viene a sorpresa schiacciato da un trattore con grande e sadico piacere da parte dello spettatore – e causando probabilmente un piccolo trauma psicologico (speriamo sanabile) a qualche bimbetto particolarmente sensibile.

La stessa dinamica la ritroviamo in un altro video spassosissimo e un po’ blasfemo, Jesus Christ Superstar di Javier Prato, un classico della storia dei virali che spesso mostro ai corsi della Ninja Academy quando spiego le dinamiche della viralità.

L’Emozione è la gioia: le filastrocche che si ripetono, con i teneri animali e i loro versi ci fanno tornare bambini, riportandoci indietro nel tempo e attivando in noi l’archetipo dell’Innocente, il cui pregio è quello di vivere da puer aeternus in un paradiso incontaminato, popolato da tutti quegli animaletti che cantano e ballano, ma che corre sempre il pericolo (Ombra) di diventare facilmente ingenuo e quindi stucchevolmente odioso e per questo deve essere riportato alla realtà da un gesto adulto e un po’ brusco (per non dire sadico).

Una specie di volontaria ed esasperata “Caduta dal Paradiso”, luogo ideale in cui desideriamo mantenere i nostri cuccioli, ma che rischia sempre di trasformarsi in un luogo falso e irreale, stimolando sentimenti opposti: cinismo, sadismo, nichilismo. Avete presente Happy Tree Friends? E’ proprio questo contrasto a rendere questa serie un fenomeno di culto!

In fondo la Tensione sembra essere proprio l’odio profondo per questo tipo di memi: dal gattino Virgola in poi sogniamo tutti di schiacciare questi fastidiosi animaletti e di far piangere il bambinetto con la faccia angelica che si sta divertendo da matti con queste nenie che ci mandano al manicomio.

E poi c’è la Riusabilità. Il Pulcino Pio è facilmente riproducibile e interpretabile: ne puoi fare un video in cui fai il balletto e quindi una parodia, puoi cantarlo a squarciagola visto che è il format è una specie di karaoke. E il bello è che grazie ai device mobili oggi lo puoi fare in spiaggia, nel reparto maternità, al ristorante con l’iPad, con la scusa di farlo vedere a tuo figlio o al nipotino.

Puoi anche commentarlo e dire a tutti che lo odi, come hanno fatto in molti.

L’ultima lettera della formula Create! corrisponde a Elevazione, una parola che vuole fare riflettere sugli aspetti emotivi, psicologici e spirituali della comunicazione e che introduce il tema della “tecnologia dell’anima” e del “management del senso”, aspetti tutti da approfondire e sui quali vi invito a proseguire insieme a me, se vi va, la ricerca.

E qui diventa più difficile capire se il Pulcino Pio ci eleva come spettatori – come effetto di ogni catarsi che si rispetti – oppure ci fa regredire ad uno stadio infantile simile a quello in cui da piccoli, prima costruivamo con impegno un elaborato castello di sabbia facendo contenti mamma e papà e poi lo distruggevamo, magari iniziando dalla parte del castello fatta dal nostro amichetto della spiaggia, che in fondo ci stava profondamente antipatico.

Era bello distruggere con i piedi quel castello di sabbia, vero? E allora sì, forse anche oggi ci fa bene ogni tanto schiacciare un Pulcino Pio.

Fonte: Ninjamarketing

Nokia, le scuse dopo il falso Lumia

Il colosso finlandese ammette l’errore: i video negli spot promozionali del nuovo 920 non sono stati girati grazie alla tecnologia PureView. Avviata una indagine interna

Roma – A pochi giorni dalla presentazione newyorchese dei nuovi Lumia 920 e 820, i vertici di Nokia hanno ammesso il clamoroso errore. Nei video promozionali dei due smartphone basati su Windows 8, le parti filmate non sono frutto della tecnologia PureView, bensì di una comunissima videocamera portatile. Il colosso finlandese ha dunque confermato quanto sostenuto da numerosi blogger: gli spot dei nuovi Lumia sono stati in qualche modo falsificati.

Le pubbliche scuse sono arrivate in un post apparso sul blog aziendale: gli spezzoni video negli spot di Lumia 920 sono stati prodotti con una videocamera e non grazie alla tecnologia integrata PureView, “nel tentativo di dimostrare i benefici della stabilizzazione ottica, che elimina le immagini offuscate e migliora lo scatto in condizioni di scarsa luminosità”. Il produttore europeo non avrebbe mai architettato un inganno per milioni di utenti.

Secondo Nokia, il risultato ottenuto nei video promozionali sarebbe del tutto simile a quello garantito da Lumia 920 con tecnologia PureView. La stessa società finlandese ha inoltre ammesso che altri elementi negli spot – alcune fotografie – sono frutto di simulazione. Ci sarà ora un’indagine interna, che resterà privata ma assolutamente “equa”. Lo spot sarebbe stato girato nelle fasi di pre-produzione del nuovo modello di smartphone. (M.V.)

Fonte: PuntoInformatico

YouTube da record, 48 ore di video caricate ogni minuto

Dopo 6 anni di attività YouTube taglia il traguardo di oltre 48 ore di video caricate ogni minuto: un record risultato di una sfida che il sito aveva lanciato a novembre. Ogni minuto su YouTube vale dunque due giorni di video: un aumento del 37% rispetto agli ultimi 6 mesi e del 100% rispetto allo scorso anno.

A determinare la crescita fattori come un processo di caricamento più rapido, una maggiore durata dei video, il live streaming per i partner come, fra i più recenti, le nozze dei Reali d’Inghilterra e la Beatificazione di Giovanni Paolo II.

Inoltre, lo scorso weekend, la community ha contribuito a far superare i 3 miliardi di visualizzazioni al giorno, un incremento del 50% rispetto all’anno precedente. In prospettiva, questo dato equivale a quasi la metà della popolazione mondiale che ogni giorno guarda un video su YouTube.

Negli ultimi anni sono tante le cose fatte: sempre più iniziative globali come la YouTube Symphony Orchestra (un successo anche nella seconda edizione) o Life in a Day, sempre più partnership con produttori di contenuti come quella con La7, sempre più interviste in live stream con i grandi della terra come quella del Presidente Obama o del Presidente Zapatero.

Prossimo obiettivo per il sito le 72 ore di video al minuto o i 4 miliardi di visualizzazioni al giorno.

Fonte: http://www.lastampa.it

Tutti i vizi e i segreti che internet sa di noi

A tradimento Expedia mi chiede se voglio andare in vacanza con l’ex fidanzata. Non lo dice proprio così, ma mi suggerisce il suo nome per il secondo biglietto d’aereo. Se lo ricorda da un vecchio acquisto, l’impertinente sito di viaggi. Lo stesso fa Amazon per la consegna dei libri. Se li hai fatti spedire a un indirizzo che non frequenti più, lui insiste. Persino il sito delle contravvenzioni del comune di Roma prova a inchiodarti al passato. Vado a controllare una multa e, accanto al verbale, ora hanno messo la foto dell’infrazione. In bianco e nero, sgranata, ma ineluttabile: sono proprio io in sella. Con la compagna di allora. Dio perdona, Internet no. Soprattutto non dimentica niente. Ci conosce meglio di una madre, di un amico, di uno psicanalista. Ed è in grado di mettere insieme così tante tessere di quel mosaico caotico che è la vita da ricostruirlo a un livello di dettaglio impensabile nell’èra Pre-Web. Così ho chiesto alla rete di scrivere la mia biografia, non per il suo trascurabile interesse, ma per quello enorme che a redigerla sia un algoritmo. Utilizzando fonti aperte, informazioni a disposizione di tutti. Avessi interpellato i Servizi segreti avrei ottenuto un ritratto meno vivido. Provare per credere.

Se fai il giornalista, in teoria, sei più esposto di un impiegato del catasto.

Ma non è detto, perché l’impiegato potrebbe avere una pirotecnica doppia vita telematica: condividere tutto su Facebook, commentare blog altrui, affidare a Twitter in tempo reale la propria opinione sull’universo mondo. Insomma, cose che io non faccio. Perché alla fine i pixel con cui la rete comporrà il nostro ritratto digitale, ad alta o a bassissima risoluzione, siamo noi a fornirglieli. Talvolta in maniera attiva, riempendo questionari, firmando petizioni, e così via. Più spesso in modo passivo, semplicemente navigando, comprando o essendo taggati in foto altrui. Per cominciare, dunque, c’è Google. Il grado zero è l’egosurfing, ovvero controllare ciò che in rete si dice di noi digitando «nome cognome». Nel mio caso escono 102 mila risultati, ma le quotazioni cambiano con i giorni. Ai primi posti una voce di Wikipedia in inglese che fino a qualche tempo fa sosteneva erroneamente che fossi il capo di Repubblica.it (approfitto per scusarmi col titolare). Verso il fondo spunta invece un messaggio che spedii il 27 maggio 1996 a un gruppo di discussione sulla pubblicità online. Per quel che ne sapevo allora era come attaccare un annuncio in una bacheca dell’università. Quel che ho imparato poi è che nessuno l’avrebbe mai rimosso e anzi sarebbe stato imbalsamato a futura memoria. Avessi chiesto istruzioni per confezionare una bomba sarebbe stato lo stesso.

Se poi, come me e altri 170 milioni di persone nel mondo, usate la posta di Gmail, le cose si complicano. Nel senso che tutto quello che scrivete potrà essere usato, pubblicitariamente parlando, contro di voi perché il sistema analizza i testi per accoppiarci pubblicità pertinenti. Dunque se dite a un amico che sarebbe bello trascorrere un finesettimana a Palermo aspettatevi, per dire, annunci su una suite scontata all’hotel Delle Palme. Per vedere come vi hanno etichettato c’è Google Ads Preferences. Di me il software ha capito che sono un maschio e tra gli interessi desunti dal mio comportamento online ci sono cinema, spartiti musicali, giornalismo. E in tv mi piacerebbero «crime stories e legal show» (nego l’addebito). Ma Google è ormai un mondo. Mette a disposizione un programma per scrivere, un calendario, un sistema di notifiche personalizzate e tanto altro. Gratis, o meglio, pagando in moneta di privacy. Lui ti offre un servizio, tu gli affidi la tua vita digitale. Ciò che scrivi, dove vai e quando, quello che ti interessa sapere. Così, seppure in forma anonima, il cyber-leviatano riutilizzerà quella messe di dati per recapitarti l’inserzione giusta. Sono andato a verificare nel Dashboard, la «scatola nera» di tutti i miei rapporti con il motore di ricerca. Ed è come guardarsi l’anima allo specchio. Dal momento che ho attivato anche la Cronologia, ovvero il registro storico di ogni ricerca eseguita, sanno esattamente cosa ho visto in questi anni. Il resoconto inizia alle 18.16 del 22 maggio 2007 e le parole chiave, credeteci o no, erano «nietzsche memoria troppo buona» (magari mi sono fatto suggestionare e volevo sancire con una citazione del filosofo l’aver attivato quella specie di panopticon volontario).

Ogni singola query è stata messa a verbale. Ci sono anche tutti gli indirizzi che ho cercato su Mappe. I video che ho guardato, dalla clip di The Ballad of John and Yoko all’ultimo disco dei Virginiana Miller. Per non dire di quelli che ho caricato su YouTube. Così come le foto che, tanto tempo fa, ho condiviso sugli album digitali Picasa. E i titoli che ho scaricato su Libri. Ce n’è già abbastanza per ricostruire la mia esistenza, avendo del gran tempo da perdere, minuto per minuto.

Per accedere al sancta sanctorum però bisogna possedere la parola chiave. Serve un hacker bravo o, banalmente, averla lasciata memorizzata nel pc. Tuttavia, anche limitandosi alle informazioni aperte i risultati sono stupefacenti. Se non avete familiarità con la sintassi dei motori di ricerca ci sono compagnie specializzate in web listening. Di solito lo fanno per le aziende, per capire che «reputazione» ha un marchio o un certo prodotto. Li ho sfidati a sguinzagliare i loro software specializzati perché portassero a casa i dati più succosi sul mio conto. Dopo meno di un giorno l’emiliana TheDotCompany mi ha recapitato un rapportino che sembra vergato da un funzionario della Digos. Contiene: luogo e data di nascita, numeri di telefono di lavoro e di casa, qualifica professionale esatta, il nome di mio padre e l’annotazione che «I genitori e il nipote vivono a Viareggio». Un’impeccabile biografia lavorativa e poi «Il sistema di correlazione di keyword e contenuti suggerisce orientamento politico Pd/Rifondazione Comunista e forti legami con il mondo sindacale», credo desunti dal fatto che ho scritto un libro sugli immigrati e l’ho presentato in varie feste dell’Unità. In parallelo anche Expert System di Modena, specialista nella tecnologia semantiche per la comprensione e l’analisi delle informazioni, era sulle mie tracce. In una decina di slide riassume le organizzazioni, le persone (vince il mio amico Raffaele Oriani, con 319 ricorrenze), le località, gli argomenti con cui ho più a che fare (Internet 206, immigrazione 150, editoria 137, etc.) e un’enoteca che frequento. I segugi milanesi della FreedataLabs ricavano addirittura profili psicologici dalle parole che uso. Dicono che solo il 6% appartiene a categorie emozionali e mi dipingono come uno molto «teso all’obiettivo», «curioso» ma anche «introverso», con venature di «tristezza». Così parlò lo strizzacervelli automatico.

Joel Stein, un collega di Time che ha fatto lo stesso esperimento, è stato più bravo nel rinvenire tracce economiche di sé. La Alliance Data, società di marketing digitale, sa che è un ebreo di 39 anni, con laurea e stipendio da oltre 125 mila dollari. Che ne spende in media 25 per ogni acquisto online ma il 10 ottobre 2010 ne ha sborsati 180 per biancheria intima. «Sono dati che in Italia sarebbe impossibile avere senza l’ordine di un magistrato» mi tranquillizza Andrea Santagata, numero due di Banzai, tra le più grandi web company nazionali, «perché abbiamo una legge sulla privacy molto più stringente. In ogni caso alla pubblicità non interessa sapere come ti chiami, ma conoscere il tuo profilo per mirare i messaggi». Tutto vero, e da tenere a mente per non finire arruolati nel già affollato partito delle teorie della cospirazione. Ma quanto detto sin qui lo è altrettanto. Anzi, non c’è stato neppure tempo di parlare di Last. fm che sa che musica ascolto (se ti piacciono i Wilco ti piaceranno anche i Golden Smog e The Autumn Defense). O di Ibs che, sapendo quali libri acquisto me ne consiglia altri, per proprietà transitiva: se David Foster Wallace, allora George Saunders. O di infinite altre destinazioni online che, per il solo fatto di aver interagito con loro, hanno creato dei dossier da cui inferire la mia personalità. È una tragedia? Neanche per sogno. Internet è l’invenzione più strepitosa e benemerita dell’ultimo secolo. Basta essere consapevoli e comportarsi di conseguenza. Per quanto riguarda infine la sconveniente insistenza di Expedia ho estirpato il cookie, il pezzetto di codice che ricordava al sito i miei viaggi precedenti. E adesso il computer non si impiccia più in cose che non lo riguardano.

Fonte: http://www.repubblica.it/

L’energia viene dalla voce Il cellulare si ricarica parlando

ROMA – La voce umana è energia. E ricaricare il telefonino semplicemente parlando potrebbe essere possibile già nel futuro prossimo, almeno secondo una squadra di ingegneri dell’Università sudcoreana di Sungkyunkwan a Seoul. “Abbiamo cercato di trasformare il suono in elettricità”, dice l’ingegnere Sang-Woo Kim al quotidiano inglese Telegraph. “La voce è una possibile fonte di energia, a cui non è mai stata data l’attenzione che merita”.

A rendere possibile la cosa è un nuovo tipo di batteria, in grado di trasformare le vibrazioni sonore in elettricità. Non solo la voce, quindi: il telefonino si potrebbe ricaricare anche lasciandolo in un ambiente rumoroso. Magari, tenendolo in tasca quando si viaggia su un mezzo pubblico. Più rumore c’è, meglio è, secondo i ricercatori. Una soluzione che potrebbe invitare ad urlare nel telefono per ricaricarlo.

Come funziona. Tutto sommato, non sembra un’idea complicata. Alla batteria è collegato un materiale fonoassorbente, che vibra e trasmette la vibrazione a filamenti di ossido di zinco. Questi rispondono alla vibrazione contraendosi ed espandendosi, producendo elettricità. Al momento esiste solo un prototipo della batteria, in grado di alimentare dispositivi a basso consumo. Ma le applicazioni commerciali e su più ampia scala potrebbero non essere così distanti.

Non solo parole. Ma l’intuizione di Sang-Woo Kim è una di quelle destinate a fiorire. Limitarsi a ricaricare i cellulari, quando una simile tecnologia potrebbe essere usata anche per i veicoli, i computer, l’illuminazione, insomma qualunque dispositivo alimentabile con una batteria? Dice l’ingegnere: “Se le autostrade fossero dotate di protezioni acustiche, potrebbero catturare il suono dei veicoli e permetterne la ricarica in marcia, al contempo diminuendo la rumorosità nell’ambiente”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Apps mobili, un business da 3,8 miliardi di dollari. Tre quarti sono di Apple

Una torta ambita. Una torta che fa gola a chi il mercato delle apps l’ha inventato (Apple) e a chi sta cercando di diventarne ora il riferimento (Google) ma anche a chi, negli smartphone, ha giocato e vuole giocare un ruolo da protagonista (Microsoft, Nokia, Research in Motion).

Il business delle applicazioni è più che mai una voce chiave dell’industria mobile e dalle rilevazioni di IHS ISuppli arriva un’ulteriore conferma della sua grande dinamicità. Il giro d’affari delle apps dovrebbe infatti crescere quest’anno di oltre il 77% rispetto al consuntivo 2010 per toccare quota 3,8 miliardi di dollari. Stando agli analisti della società di ricerca californiana, il download di giochi e software di vario genere conoscerà quindi un’ulteriore sviluppo nei prossimi due anni per arrivare, a fine 2014, a valere qualcosa come 8,3 miliardi di dollari. Una cifra dieci volte superiore a quella registrata nel 2009.

L’App Store di Apple, per quanto alcuni studi lo diano in regresso rispetto all’Android Marketplace (tanto che il numero di apps di quest’ultimo potrebbe essere superiore a quello delle apps per iPhone già da luglio), genererà nel 2011 circa i tre quarti di questo mercato, e più precisamente 2,6 miliardi di dollari, il 63% in più di quanto registrato l’anno passato. Per il negozio di applicazioni di Google, invece, il salto sarà addirittura quadruplo ma con un valore nettamente inferiore a quello della rivale, e cioè 425 milioni di dollari. Per Rim e il suo BlackBerry App World e Nokia e il suo Ovi Store le cifre in gioco sono molto più ridotte e rispettivamente si parla di 279 milioni di dollari per la prima (comunque in salita del 69%) e di 201 milioni per la seconda. La grande variabile si chiama Windows Phone Marketplace: se il sodalizio fra la casa di Redmond e Nokia darà i frutti sperati è lecito pensare che una consistente parte del fatturato globale delle apps verrà prodotto dalla piattaforma di Microsoft.

A contribuire alla “apps mania” – saranno 18,1 miliardi i download quest’anno, rispetto ai 9,5 miliardi del 2010 e i 3,1 miliardi del 2009 – concorreranno secondo ISupply tanto le grandi media company come Time Warner, Walt Disney e News Corp quanto start up di successo come Rovio Mobile (la società norvegese che ha dato vita ad “Angry Birds”) e colossi dell’entertainment come Electronic Arts, che proprio in queste ore ha perfezionato l’acquisizione di Firemint, l’azienda australiana che produce giochi per cellulari cult come “Flight Control” ed “Real Racing”. E giusto per non farsi mancare nulla in fatto di popolarità, questo il commento finale degli analisti, le apps vivono anche delle battaglie legali che coinvolgono le grandi firme di questo mondo, vedi per esempio Apple e la causa mossa nei confronti di Amazon per il marchio App Store, utilizzato (secondo la casa di Cupertino) in modo improprio dal gigante dell’e-commerce per vendere applicazioni per telefonini.

Fonte: http://www.ilsole24ore.com

Libertà su Internet: l’Estonia è il paradiso, Cina e Iran i cattivi

L’Estonia è la più libera e l’Iran quella meno, mentre la repressione più sofisticata avviene in Cina e nei prossimi 12 mesi la situazione peggiorerà in Russia, Venezuela, Giordania e Zimbabwe: sono le conclusioni contenute nel rapporto «Freedom on the Net 2011», nel quale la Freedom House di Washington denuncia le violazioni dei diritti universali sul web.

Lo studio divide il pianeta in nazioni libere, non libere e parzialmente libere, prendendo ad esempio del primo gruppo otto Paesi – Estonia, Stati Uniti, Germania, Australia, Gran Bretagna, Italia, Sud Africa e Brasile -, fra i quali quello di Tallinn emerge come il maggiore garante di libertà di accesso, diffusione di contenuti e rispetto dei diritti degli utenti. Gli Stati Uniti sono in seconda posizione, perché sebbene l’accesso al web rimanga in gran parte «più libero e giusto rispetto al resto del mondo», soprattutto grazie ad una serie di sentenze a difesa dei diritti degli utenti, hanno un tallone d’Achille nell’estensione della rete a banda larga e nella velocità di connessione, senza contare che i poteri di sorveglianza del governo «preoccupano». Fra i «Paesi liberi» esaminati, l’Italia è al terz’ultimo posto, perché «negli ultimi anni il governo ha introdotto diverse leggi che pongono serie minacce alla libertà online», come ad esempio «rendere i siti responsabili per i video messi online dagli utenti» e l’«obbligo di onerose registrazioni per le comunicazioni online». In particolare, «la tendenza a restringere la libertà su Internet è frutto della struttura della proprietà dei media in Italia, dove il primo ministro Silvio Berlusconi possiede, direttamente o meno, un grande conglomerato privato» che «lo può incentivare a restringere il libero flusso di informazioni online per ragioni politiche o per condizionare la competizione sugli spettatori dei video online». Il rapporto sottolinea anche che in Italia Internet raggiunge il 49 per cento della popolazione, ovvero un livello più alto della media del resto del mondo, ma considerevolmente più basso degli altri Paesi industrializzati. Ciò che invece distingue l’Italia è guidare la classifica Ocse sulla penetrazione dei cellulari.

Il gruppo dei Paesi non liberi include 11 nazioni, la cui classifica ascendente sulla base delle restrizioni è: Thailandia, Bahrein, Bielorussia, Etiopia, Arabia Saudita, Vietnam, Tunisia, Cina, Cuba, Birmania e Iran. L’ultimo posto va a Teheran, perché «sin dalle proteste che seguirono le dubbie elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, le autorità hanno condotto una dura campagna contro la libertà su Internet, inclusa la decisione di rallentarne la velocità e di adoperare gli hackers per neutralizzare i siti dell’opposizione». E inoltre «un crescente numero di blogger viene minacciato, arrestato, torturato e messo in cella di isolamento» fino all’estremo di «uno di loro deceduto in prigione».

In fondo alla classifica anche i generali birmani e la Cuba di Raúl Castro, ma è alla Cina che il rapporto dedica l’analisi più approfondita, perché «Pechino ha messo in piedi il più sofisticato sistema di controllo di Internet». Si tratta di un complesso di misure «divenute più restrittive negli ultimi anni» che vedono Facebook e Twitter «bloccati in maniera permanente» portando allo sviluppo di «alternative locali ostacolate dalla censura». Nella regione dello Xinjiang, teatro di una rivolta etnica, l’interruzione di Internet è durata «un mese intero» ed almeno 70 persone sono state arrestate per aver commesso «crimini online» diffondendo informazioni sulla repressione.

Le nazioni «parzialmente libere» prese in esame dal rapporto sono invece 18, e fra loro spicca la Russia di Dmitry Medvedev, per la possibilità di un «deterioramento grave nei prossimi 12 mesi» a seguito dell’entrata in vigore di leggi restrittive della libertà online per molti versi simili a quelle del Venezuela di Hugo Chavez. Fra i Paesi che rischiano di diventare «non liberi» c’è il Pakistan, dove lo scorso anno il governo ha creato un comitato ad hoc che può decidere di bloccare i siti sulla base di «offese molto vaghe allo Stato o alla religione».

Riguardo alla repressione delle libertà online, Freedom House individua dei comportamenti omogenei da parte di più regimi che aumentano la censura in risposta alla maggiore diffusione dei social network, spingendosi ad arrestare i blogger, lanciando cyberattacchi contro i siti dissidenti e sfruttando la struttura centralizzata della rete per limitarne gli accessi.

Fonte: http://www.lastampa.it

Anziani, con Facebook vivono meglio

Secondo l’associazione italiana di psicogeriatria (Aip), Facebook avrebbe un effetto benefico sulla memoria degli over 65. Oltre un milione e mezzo di anziani possiede un profilo sul social network e un altro milione di internauti dai 65 anni in su utilizza Skype e YouTube.

Uno studio condotto nelle province di Brescia e Cremona ha rivelato che collegarsi quotidianamente a Facebook per un’ora avrebbe un effetto positivo e benefico sulla memoria, conservandola attiva, e migliorerebbe l’umore.

Marco Trabucchi, presidente dell’Aip, ha detto: “Negli ultimi anni il numero di anziani che si è avvicinato al web è cresciuto dell’80%. Gli anziani sono la fascia di utenti cresciuta di più. Basti pensare che gli over 65 iscritti a Facebook o MySpace sono circa l’8% del totale. Internet e le nuove tecnologie tengono viva la curiosità culturale degli anziani, migliorano le prestazioni cognitive e mantengono giovane il cervello, stimolando l’attenzione, la memoria, la percezione”.

L’utilizzo del web, inoltre, ridurrebbe i sintomi di ansia, stress e depressione e aiuterebbe gli anziani con problemi di disabilità a creare reti di supporto e sociali

Fonte: http://www.televideo.rai.it

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