Il digitale sta trasformando ogni settore di attività umana. La rete ha già cambiato radicalmente il commercio al dettaglio attraverso l’e-commerce, ora il digitale tenta di indurre una mutazione profonda anche nelle modalità di vendita degli esercizi commerciali fisici del settore automobilistico.
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Continua a crescere il numero di acquirenti online sul suolo italico. Gli eShopper che hanno comprato sulla rete negli ultimi tre mesi sono, stando alle rilevazioni di ottobre 2012, il 43,4% dell’universo dei navigatori internet, pari a 12,3 milioni di individui (erano 9,2 milioni un anno fa). Gli acquirenti online attivi alla rilevazione di ottobre dichiarano una frequenza media di acquisto pari a 3,5 transazioni per trimestre, poco più di una al mese, secondo l’ultima ricerca condotta da Netcomm, il Consorzio del Commercio Elettronico Italiano con Human Highway.
La decima edizione dello Iab Forum e i dati sugli investimenti pubblicitari sul web
Mentre il settore continua a digrignare i denti, la pubblicità online si conferma isola felice. Anche se deve fare i conti un rallentamento rispetto all’anno scorso. Come tradizione, lo IAB Forum snocciola in apertura i dati sugli investimenti pubblicitari nostrani in Rete e fa riferimento un +12% nel 2012, a fronte della flessione complessiva del comparto dell’8,4% testimoniata da Nielsen. A differenza degli anni scorsi, non è stato fornito il dato degli investimenti in valore assoluto. Il 2011 si era chiuso con un rialzo del 15% a toccare quota un miliardo e 200 milioni di euro e, anticipa il presidente di IAB Italia Simona Zanette, la stima di crescita rispetto al punto di partenza attuale per i prossimi 12 mesi è del 10%.
IL DIGITALE – L’appuntamento milanese sulla comunicazione digitale, giunto alle decima edizione, apre oggi nella speranza che l’Agenda digitale di recente costituzione dia l’impulso per l’impennata definitiva. Oggi, spiega Zanette, «il confronto fra televisione e Internet ci mette davanti a una situazione in cui in ogni casa c’è un apparecchio televisivo, mentre a Internet è connesso il 54% della popolazione, 28 milioni di utenti (dato Audiweb relativo a giugno 2012, ndr)». E per chi fa pubblicità e deve diffondere il messaggio a tappeto non è un particolare trascurabile. Questa mattina Mario Calderini, consigliere del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo e coordinatore del gruppo di lavoro Smart Communities Agenda Digitale, e Alessandro Fusacchia, consigliere del ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera e coordinatore della task-force per le startup, si soffermeranno nella cornice meneghina sulle misure previste dal governo per favorire la penetrazione del digitale nell’economia nostrana.
ALFABETIZZAZIONE – Zanette drizza le orecchie quando si parla di “alfabetizzazione e infrastrutture” che permetteranno all’audience online di crescere e, conseguentemente, agli investitori di acquisire fiducia nella piattaforma. Al momento, la faccia sorridente della medaglia è proprio quella che collega la tv all’online: in Europa, negli ultimi due anni la «fruizione in differita di programmi su tablet o smartphone è cresciuta del 750%», spiega Zanette facendo riferimento a una ricerca della versione comunitaria di IAB. L’Italia, con i suoi 25 milioni di telefoni cellulari intelligenti e il sopracitato legame con l’ex tubo catodico, è potenzialmente molto reattiva e l’Interactive Advertising Bureau tricolore si aspetta che «il video advertising funga da traino». Nei negozi, fa notare Zanette, l’offerta di «smart tv con navigazione integrata, fra i nuovi modelli, supera già quella di apparecchi classici»: ci sono quindi ottime ragioni per immaginare un futuro non troppo lontano in cui saremo esposti al messaggio pubblicitario su un doppio/triplo fronte e anche in momenti diversi dalla diffusione del contenuto da parte dell’emittente televisiva.
IL TARGET – Guardando al futuro, sarà la possibilità di intercettare il target di utenti potenzialmente interessato al prodotto o al servizio a fare la differenza. Zanette fa riferimento alle piattaforme di Real time bidding che «negli Stati Uniti fagocitano il 40% degli investimenti e nel Regno Unito il 30%». Trattasi di una soluzione che permette ai portali «nel rispetto della privacy dell’internauti», di individuare le caratteristiche e gli interessi di chi sta navigando fra le sue pagine e di ingolosire gli inserzionisti alla ricerca di utenti con appetiti specifici.
Fonte: Corriere della Sera
ho 39 anni, mi occupo di pubblicità da 17 anni, e da più di 16 sono un imprenditore.
Un piccolo imprenditore: la mia agenzia oggi conta poco più di 40 persone. Ma un imprenditore che nel suo piccolo, insieme ai suoi soci, si dà un gran da fare, da sempre.
Le scrivo in questo inizio d’autunno perché, come mi accade sempre, sono tornato dalle vacanze estive pieno di voglia di fare, di inventare, di creare. Ma la prima mail che ho letto è stata una circolare del mio commercialista su “riforma del lavoro, nuova deducibilità costi auto e nuova deducibilità contributo SSN dei premi assicurativi delle auto”. L’ho letta e subito l’effetto adrenalina estiva è passato.
E mi chiedo – molto ingenuamente, lo so – se le domande che io e i miei soci continuiamo a porci siano mai transitate sulla scrivania del suo Governo.
Non avrei mai pensato di rivolgermi direttamente al Presidente di qualsiasi Governo del passato, ma oggi è diverso. Oggi c’è una persona onesta e interessata al bene dell’Italia, questo è quello che penso.
E allora dico: ma lo sa che ci sta passando la voglia?
Nell’illusorio dubbio che lei non lo sappia, e certi che le interessi sapere perché, ecco le nostre domande, ognuna con un piccolo commento per contestualizzare.
Magari le arriveranno in qualche modo. La rete – si dice – è democratica e potente. O magari non le leggerà, ma potranno servire a verificare se qui in giro siamo gli unici a porcele senza trovare risposta.
1. È davvero indispensabile continuare a tassare i costi che le aziende sostengono? Non sarebbe più giusto, sano e perfino educativo aumentare – se proprio serve, e so che serve – le tasse sui profitti?
Parlo dell’IRAP (che tutti quelli che vendono servizi odiano visceralmente, perché del tutto iniqua e disincentivante soprattutto verso le assunzioni del personale) ma anche delle riprese fiscali. Il messaggio che passa (e che viene rafforzato dalle piccole ma significative modifiche alle soglie di deducibilità di alcuni costi) è questo: “meno assumi persone, meno paghi di tasse. Meno spendi e consumi, meno paghi di tasse. Visto che con la crisi sei già tentato di tagliare, con questi incentivi non puoi tirarti indietro”. Non sarebbe invece più sensato e utile per tutti (e per l’occupazione prima di tutto) invitare le aziende che riescono ancora a crescere in fatturato a reinvestire tutto il loro margine in persone e servizi, invece di fare il contrario?
2. È producente togliere a un piccolo imprenditore la possibilità di avvalersi di collaborazioni, o renderle impraticabili per i loro costi, e non fornire alcun incentivo all’inserimento del personale, proprio in un momento come questo?
È il Governo che scrive le regole, ma penso che la cecità sia anche dei sindacati. Qualche lavoratore dovrebbe dirglielo, che a causa delle continue strette sulle forme contrattuali tra un po’ le imprese di servizi (quelle che vivono esclusivamente del lavoro delle persone) si troveranno costrette e ridurre il personale, creare nuovi disoccupati, chiedere un extra sforzo ai pochi dipendenti che si potranno permettere. Ma non ne leggo, non ne sento parlare. Se si chiude una fabbrica si va in piazza, se una legge ha come effetto collaterale quello di bruciare migliaia e migliaia di opportunità per i singoli allora non se ne dice nulla. Invece bisogna dirne. Per capire di cosa parlo, io oggi ho un cliente che mi firma un contratto di un anno per gestirgli la pagina Facebook. Ho bisogno di un collaboratore che, per quel progetto specifico, mi dia una mano. Non posso. Se è un ragazzo che sta finendo l’università non posso dargli 800 euro al mese (che gli farebbero un gran comodo, lo inserirebbero in un mondo lavorativo, lo aiuterebbero a formarsi un’esperienza rivendibile su un ambito in forte crescita). Invece non posso.
La partita IVA non va bene se fattura solo a me. Il contratto a progetto prevede che non abbia nessuno a cui rispondere (invece il cliente è dell’Agenzia, e lui deve collaborare con il team creativo e strategico, assunto e ben pagato).
E se lo assumo a tempo determinato devo dargli minimo 1.000 euro, con contributi aumentati (perché il tempo determinato è cattivo) che portano il costo della sua prestazione per un anno a 27.000 euro. Insostenibile per un singolo progetto. E soprattutto ingiusto come costo per un ragazzo che non ha mai lavorato prima: non per snobismo, ma perché uno come lui deve essere ben seguito. E seguire e formare una persona è un ulteriore importante costo per un’azienda. Non so cosa farò, probabilmente chiederò alle persone che ho già regolarmente nello staff di farsi qualche ora di lavoro in più, imparare cose che non sanno fare, assumendomi il rischio di un lavoro fatto peggio e soprattutto negando a un ragazzo fortunato (perché sa fare quello che chiede il mercato) l’opportunità di scongiurare il pericolo disoccupazione.
È davvero incredibile: noi come agenzia (e come noi molte altre a Milano) abbiamo molto bisogno di giovani svegli, magari al primo o secondo impiego, da formare e inserire in quest’area. Ci sono opportunità occupazionali, udite udite! Ma come facciamo? A queste condizioni dovremo selezionare solo gente che abbia già esperienza, perché rischiare con un novellino da formare non vale la pena.
Così chi ha già un lavoro lo può cambiare, chi non ce l’ha rimane alla finestra. È così che si rilancia l’economia? Sarò stupido io, ma mi sembra di no. Invece di incentivare gli inserimenti, invece di creare opportunità per i ragazzi più giovani, si fa il contrario.
P.S., già che ci sono: come faccio a pagare una collaboratrice che merita 8.000 euro per un lavoro (fatto da casa sua in due mesi)? Lei fa un altro mestiere, non posso chiederle di aprire la partita Iva solo per me, per un una tantum!
La pagherò allora solo 5.000, il resto mancia, peggio per lei. Possibile che nessuno si accorga che chi ci rimette sono i lavoratori? E se anche fossero le imprese, sarebbe meglio?
3) E infine la domanda più importante: chi me lo fa fare? Fare l’imprenditore, rischiare del proprio per creare un’impresa, per dare posti di lavoro, non è qualcosa che dovrebbe essere incentivato e premiato?
Invece ci sentiamo puniti. Quando dopo un anno duro come il 2011 tiriamo le somme, verifichiamo che – in controtendenza – siamo cresciuti del 20% in fatturato e del 20% in numero di persone impiegate, chiudendo un bilancio con quasi il 10% di utile lordo, noi vorremmo festeggiare. Ma se poi il 75% di questo utile lordo viene versato in tasse (e avendo l’80% dei costi fissi come costi del personale, di contributi ne abbiamo già versati allo Stato per oltre il 40% del nostro fatturato) la voglia un po’ ci passa.
Quando poi gli spiccioli che avanzano vengono distribuiti, ecco che vengono di nuovo tassati.
Ma non è nemmeno questo. Qualche spicciolo è meglio di niente, e se c’è bisogno di pagare l’80% di tasse sugli utili per qualche anno (sperando non sia sempre così) può anche andare bene, tappandosi il naso e sentendosi parte di una comunità che ha bisogno del nostro aiuto come quello di tutti. Ma se per caso nel 2012 dovessimo chiudere un bilancio in pareggio, perché invece di chiudere il portafoglio, ridurre lo staff e puntare al profitto a breve termine avremo deciso – da buoni padri di famiglia, come ci chiede il codice civile – di continuare a investire in attesa di tempi migliori?
Nell’attesa di questi tempi migliori, meglio evitare alle persone di lavorare il doppio allo stesso costo (come fanno altri nel nostro settore per sopravvivere), accettando l’obiettivo del pareggio, per arrivare a fine anno a dirci “bravi, è andata, abbiamo fatto quadrare i conti, non è un anno per portarsi a casa dividendi ma l’agenzia è cresciuta ancora”?
Ma se davvero arrivassimo così a fine anno, lo Stato si congratulerebbe, ci ringrazierebbe, ci premierebbe? Ci incentiverebbe a fare ancora di più e meglio l’anno dopo? No. Ci punirebbe.
Ipotetico utile lordo 1.000 euro, perdita dopo le tasse di 100.000 euro. L’IRAP di cui sopra. Le riprese fiscali di cui sopra. 100.000 euro (dopo averne fatturati 3.500.000, e spesi altrettanti) che tireremmo fuori di tasca nostra, noi imprenditori. Senza averli, perché l’anno prima – che è andato meglio – abbiamo dato tutto in tasse.
Siamo tre soci, ognuno di noi potrebbe avere lo stesso stipendio (o qualcosa di più) lavorando come manager per una multinazionale. Chissà se non sceglieremo quella strada, alla fine.
E poi ai 40 dipendenti che lavorano con noi cosa racconteremo? Che fare impresa non ci conviene? Che si cercassero un nuovo impiego, e buona fortuna, visto che lavorano in una industry, quella della pubblicità, che continua a tagliare posti di lavoro? “Ma come?”, ci risponderebbero. “Abbiamo preso nuovi clienti, fatturato di più, chiuso in (piccolo) utile. Abbiamo visto arrivare nuovi colleghi, licenziati da altre grandi agenzie. E ci dite che volete chiudere? Non è giusto, non fatelo”.
Per questo, fino a oggi, non lo abbiamo fatto né abbiamo progettato di farlo. Ma basta, per favore, metterci alla prova con questa disattenzione. Se è vero che in Italia il mondo del lavoro è fatto da tante piccole imprese, che a botte di 40 persone alla volta danno stipendi a milioni di persone, provate a dare qualche pacca sulle spalle agli imprenditori che fanno la loro parte. Tassate al 90% gli utili, se volete. Ma non fateci passare la voglia di lavorare, di rischiare, di investire, di assumere, di fatturare. Di fare piccola impresa.
Ecco tutto, caro Presidente Monti. Come facciamo? Quando inizieremo a vedere piccoli segnali nella direzione dell’incentivazione all’impiego, al consumo, alla sana gestione?
Io non ci credo che questa non sia una priorità per tutti. Iniziamo almeno a parlarne?
Se serve una mano per comunicare, noi siamo a disposizione. Naturalmente gratis!
Emanuele Nenna
Fonte: SPOT and WEB
Come promesso, abbiamo atteso il vostro ritorno dalle vacanze per accogliervi con un sito tutto nuovo, nei contenuti e nella veste grafica: questa volta non vi racconteremo la nostra ultima realizzazione, faremo molto di più…vi parleremo di noi, presentandovi il nostro nuovo sito.
Quando operare su Internet era ambizione di pochi, era tutto più semplice: i siti erano solo un mezzo per reperire contatti in maniera facile e comoda ma erano i canali tradizionali a farla da padrona e a decretare la fattibilità di un progetto. Insomma bastava esserci, anche se il sito era un semplice catalgo prodotti/servizi in formato elettronico, anche se il sito non parlava di te. Oggi non c’è nulla di più sbagliato…avere un sito che non rispecchi le reali caratteristiche aziendali significa sprecare tempo e denaro, indebolendo la Corporate Image.
Sono state queste convinzioni che ci hanno motivato a ristrutturarci pensando ad un sito internet in cui la nostra strategia di fare impresa poteva trovare riscontro nelle parole, nelle icone, nelle sfumature di colori e nelle sezioni completamente rinnovate. Tutto che parli di noi: della nostra storia, della mission, dello staff, dei nostri servizi, delle partnership, dei progetti, di voi Clienti…perchè siete il nostro migliore biglietto da visita.
L’aspetto grafico, volutamente solare e pulito, garantisce una navigazione veloce e piacevole, favorendo al contempo una consultazione quanto mai mirata dei contenuti. Abbiamo dato grande spazio a ciasun prodotto, con schede dettagliate che ne illustrano le caratteristiche, le Faq (Frequently Asked Question) più importanti, la possibilità di richiedere un preventivo gratuito e i Clienti che hanno scelto quella soluzione. Dalla sezione Portfolio potrete scorrere tutti i Clienti per cui abbiamo lavorato nel corso degli anni, divisi a seconda del servizio attivato. Le Case History sono i progetti più significativi, quelli che raccontano meglio il nostro lavoro grazie a piani di comunicazione integrata, mentre nella sezione Clienti abbiamo selezionato le storie di lungo successo, i Clienti con i quali abbiamo condiviso sfide e obiettivi e che ancora oggi continuano a riporre fiducia in Comma3. Il sito è ottimizzato per dispositivi Mobile e permette, inoltre, di restare sempre in contatto con le news dal mondo Comma3, grazie al nostro blog e alle nostre pagine ufficiali sui Social Network.
Da 14 anni nel mercato dei new media e delle web solutions e oggi con un nuovo look, vi invitiamo a navigare nel mondo Comma3, sicuri che l’attesa abbia aumentato il vostro desiderio di continuare a seguirci.
Buona visione!
Lo staff di Comma3 S.r.L.
Il colosso finlandese ammette l’errore: i video negli spot promozionali del nuovo 920 non sono stati girati grazie alla tecnologia PureView. Avviata una indagine interna
Roma – A pochi giorni dalla presentazione newyorchese dei nuovi Lumia 920 e 820, i vertici di Nokia hanno ammesso il clamoroso errore. Nei video promozionali dei due smartphone basati su Windows 8, le parti filmate non sono frutto della tecnologia PureView, bensì di una comunissima videocamera portatile. Il colosso finlandese ha dunque confermato quanto sostenuto da numerosi blogger: gli spot dei nuovi Lumia sono stati in qualche modo falsificati.
Le pubbliche scuse sono arrivate in un post apparso sul blog aziendale: gli spezzoni video negli spot di Lumia 920 sono stati prodotti con una videocamera e non grazie alla tecnologia integrata PureView, “nel tentativo di dimostrare i benefici della stabilizzazione ottica, che elimina le immagini offuscate e migliora lo scatto in condizioni di scarsa luminosità”. Il produttore europeo non avrebbe mai architettato un inganno per milioni di utenti.
Secondo Nokia, il risultato ottenuto nei video promozionali sarebbe del tutto simile a quello garantito da Lumia 920 con tecnologia PureView. La stessa società finlandese ha inoltre ammesso che altri elementi negli spot – alcune fotografie – sono frutto di simulazione. Ci sarà ora un’indagine interna, che resterà privata ma assolutamente “equa”. Lo spot sarebbe stato girato nelle fasi di pre-produzione del nuovo modello di smartphone. (M.V.)
Fonte: PuntoInformatico
Apple contro Samsung, Samsung contro Apple. Fra guerra dei brevetti, nuovi annunci in calendario e risultati di vendita, il dualismo fra le due aziende che dominano il mercato dei telefonini intelligenti è sempre al centro dell’attenzione. In attesa dell’evento di lancio dell’iPhone 5, in programma mercoledi 12 a San Francisco, la casa della Mela può sorridere ai dati, da prendere sempre e comunque con le pinze, che fotografano la distribuzione dei profitti in campo smartphone.
Stando agli analisti, infatti, Apple fa proprio il 71% degli utili generati da questo segmento a livello globale, lasciando alla grande rivale coreana il 37% e solo l’1% della torta alla taiwanese Htc (la somma delle percentuali supera 100 perché nel calcolo, bizzarro se vogliamo dirla tutta, sono considerate le perdite che contraddistinguono l’operato di Nokia, Research in Motion, Lg, Sony e Motorola).
Dati che fanno capire chi meglio ha saputo cavalcare, fra i produttori di dispositivi, il boom prolungato di domanda per i telefonini multimediali ma che non contemplano chi gioca un ruolo basilare nell’industria degli smartphone dal lato delle piattaforme software, e quindi Google con Android (soprattutto) e Microsoft. La società di Redmond, va ricordato, sviluppa un fatturato “parallelo” con le licenze relative all’uso delle proprie tecnologie protette da brevetto a bordo di device Android (Samsung e Htc i principali vendor sotto contratto) di circa un miliardo di dollari all’anno, giro d’affari che premia investimenti effettuati una decina d’anni fa.
Tornando invece alla questione degli utili relativi alle prestazioni esibite sul campo, è indubbio che Apple faccia la parte del leone in questa speciale classifica, sebbene non sia il marchio che vende di più in termini di volumi. Per contro, chi invece delle quantità fa oggi un vanto in fatto di market share (il fenomeno replica quello registrato anni fa nei televisori Lcd), è – guarda caso – Samsung. E per il chaebol coreano l’ultimo traguardo da esibire in tal senso è sicuramente importante anche in chiave profittabilità.
Il Galaxy III, il top di gamma dell’intero catalogo mobile di Samsung alla voce telefonini (Galaxy Note quindi escluso), ha venduto 20 milioni di unità nei suoi primi 100 giorni di disponibilità effettiva sul mercato. La sconfitta patita al processo di San Jose da Apple (per cui è attesa l’udienza di appello il giorno 20 di questo mese) non ha inficiato minimamente, a quanto sembra almeno, la popolarità del super cellulare, avviato ad infrangere ogni record di vendita della storia dell’azienda asiatica.
Il Galaxy SIII, che dopo 50 giorni dal lancio toccò quota 10 milioni di pezzi spediti, ha raggiunto l’obiettivo di cui sopra in un tempo tre volte più veloce di quanto non abbiano saputo fare l’altro “best seller” Galaxy II (per cui sono stati necessari 10 mesi) e il primo Galaxy S (17 mesi). Dei 20 milioni di apparecchi spediti nel mondo, circa sei milioni sono finiti in Europa , oltre 4,5 milioni in Asia, altri quattro milioni in Nord America e 2,5 milioni in Corea.
Fonte: ilSole24ore
Un portafoglio elettronico intelligente racchiuso nel nostro cellulare, per pagare nei negozi all’istante, sfruttare coupon e custodire lo scontrino. Tutto con un solo strumento e tutto in digitale. E’ Google Wallet, piattaforma a cui il gigante del web ha tolto i veli qualche minuto fa, in conferenza stampa. Era una novità attesa, ma ora se ne conoscono i dettagli. Il servizio debutterà per ora solo negli Stati Uniti, in estate, a partire dalle città di New York e San Francisco. Si avvale della partnership di Mastercard (ma supporterà tutte le carte di credito), Citigroup e funzionerà in 120 mila negozi, tra cui la catena di fastfood Subway, Macy’s, American Eagle Outfitters, Wallgreen’s, Toys R Us. Bisognerà avere uno smartphone per usare Google Wallet e all’inizio solo il Nexus S, dotato di chip Nfc (Near field communications). Questa è infatti una delle tecnologie cardine di Google Wallet, che utilizza però anche internet e il gps ed è quindi più sofisticata di altre piattaforme Nfc già funzionanti in varie parti del mondo. Ricordiamo infatti che l’interesse ultimo di Google è estendere la propria piattaforma pubblicitaria anche al mondo dei cellulari.
L’utente quindi paga con il cellulare. Lo avvicina a un lettore abilitato (gli stessi che ora leggono le carte di credito contactless) e l’addebito arriva sulla carta di credito associata al chip Nfc presente nel cellulare. Nel caso del Nexus One il chip è integrato, ma ci sono già soluzioni per metterlo nella sim, in una memory card oppure su speciali sticker. Secondo Juniper Research, il 20 per cento degli smartphone venduti nel 2014 integrerà Nfc, inoltre. Insomma, nei prossimi anni non dovrebbe essere troppo difficile avere nelle mani uno strumento abilitato per pagare così. Fin qui è il sistema Nfc classico, Google però aggiunge qualche nuovo aspetto. Manderà via internet, ai cellulari degli utenti, coupon e offerte sconto “last minute”, anche in base al luogo dove si trova in quel momento. E’ la filosofia di Groupon, a cui già Google ha cominciato a fare concorrenza con il servizio Offers in alcune città americane. La particolarità di Wallet è che l’utente farebbe tutto con il cellulare: qui riceve l’offerta (“vedi che nel fast food a due isolati da te, danno gratis le patatine se porti questo coupon”); entra nel negozio e sempre con il cellulare paga, avvicinandolo al lettore (al momento non è chiaro se dovrà anche digitare un pin, come avviene in alcuni sistemi di pagamento simili). Il lettore riesce a capire che nel cellulare c’è anche un coupon e applica lo sconto in automatico. Memorizza quindi la ricevuta all’interno della memoria del cellulare. A questo punto, non serve più davvero avere un portafogli.
L’interesse di Google è mettersi al centro di un ecosistema pubblicitario che è a cavallo tra internet e i negozi “reali”: è la nuova frontiera del business. Ora quello di Google è infatti troppo schiacciato sulla pubblicità nel motore di ricerca (ne ha tratto il 96 per cento dei ricavi, l’ultimo anno) ed è opportuno differenziarlo. Google, con Wallet, spera inoltre di conoscere meglio le abitudini di acquisto dei propri utenti, non solo online ma anche offline. “Non è il pagamento che gli interessa, ma i dati sottostanti”, come spiega Charles Golvin, analista dell’osservatorio Forrester Research.
E’ probabile che Wallet spingerà l’Nfc negli Stati Uniti, dove finora si è poco diffuso. Ci sono state soprattutto sperimentazioni. Starbuck’s ha lanciato un servizio simile, ma basato sul codice a barra invece che sull’Nfc. Molto bolle in pentola. Da parecchio tempo si mormora che il prossimo iPhone avrà l’Nfc. E’ di qualche giorno fa il lancio, nel Regno Unito, del servizio dell’operatore Orange: Nfc abilitato su 50 mila negozi (per ora con un modello Samsung), tra cui le catene McDonald’s, Eat, Subway, Pret a Manger. O2 intende seguire l’esempio, nel Regno Unito, entro quest’anno. Altro esempio interessante è il progetto francese Cityzi (1.200 negozi), a Nizza, che sarà allargato ad altre città entro dicembre. Vi collaborano più operatori e banche sotto l’egida del governo e delle municipalità. In Italia siamo lontani dal raggiungere un simile livello di accordi. Ad oggi spicca la sperimentazione di Telecom Italia, con l’Nfc, per pagare nella metro milanese.
Fonte: http://www.repubblica.it
La marcia dell’economia digitale passa anche per le vendite online e la pubblicità, riproposizione postmoderna del commercio e della sua vecchia anima. Dinamiche che s’insinuano in quella filiera della complessità e all’interno di quei percorsi condivisi che necessitano di essere raccontati in 140 caratteri (su Twitter) oppure ripostati (su Facebook), potente megafono del nostro e dell’altrui pensiero.
Dell’economia dei nuovi media, di marketing digitale, di editoria, nuove televisioni e cyber advertising si è parlato ieri al Forum Digital Media organizzato dal Sole 24 Ore, nel corso del quale è stata presentata una ricerca dedicata proprio ai consumatori digitali.
«Solo il 54% degli italiani è connesso a internet – ha spiegato Antonio Noto, numero uno di Ipr Marketing, che ha realizzato il report – e sono le donne e i giovani le categorie che in media passano più tempo sulla rete: 4 ore al giorno il 37% delle prime contro il 39% dei 18-34enni». Anche se il dato più interessante riguarda proprio l’ecommerce: nell’ultimo anno sul web hanno fatto acquisti online quasi 8 italiani su dieci e i prodotti preferiti sono quelli dell’editoria: libri, film, musica, seguiti da elettronica, informatica e abbigliamento.
E tutto avverrà sempre di più anche in mobilità, se è vero quello che ha detto Cesare Sironi, amministratore delegato di Matrix e head of innovation di Telecom Italia: «In tutto il mondo nel 2011 conteremo 4-5 miliardi di devices connessi, ma nel 2020 saranno probabilmente 50 miliardi. Tra questi rientrano anche le tv, che in tempi molto più brevi saranno tutte online».
La televisione, appunto. «Da questa stagione Mediaset ha messo a disposizione l’intero palinsesto – spiega Yves Confalonieri, direttore Rti interactive media – e non ha tolto nessun ascoltatore alla tv». Dello stesso avviso Andrea Portante, responsabile marketing di Rai nuovi media: «Non c’è alcuna cannibalizzazione tra le piattaforme».
E la pubblicità? Quest’anno l’advertising online arriverà a valere in Italia oltre un miliardo di euro sui 9,2 miliardi del mercato complessivo, ancora dominato per quasi il 60% dalla televisione. «Dal punto di vista pubblicitario nel futuro ci saranno tre internet – dice Luca Paglicci, a capo della Websystem, la concessionaria online del Sole 24 Ore – l’editoria online, il social networking e poi Google, ovvero la search. Il mondo dell’editoria non perda occasioni».
Ma per far decollare gli spot online «servirà trovare nuovi formati e non fermarsi al banner, i creativi in questo senso non hanno ancora dato il meglio di sè», sostiene Francesco Giromini di Bright.ly. Di pubblicità “social” ha parlato Luca Colombo, country manager per l’Italia di Facebook, che ha spiegato come sul “libro faccia” «le campagne possano prevedere anche budget limitatissimi pur essendo sempre più potenti».
Fonte: http://www.ilsole24ore.com
Per chiunque ami la buona cucina, il primo impatto può indurre una potente salivazione, quasi al limite del pavloviano. Si avvia l’applicazione sullo smartphone, si preme un pulsante e dopo pochi secondi la piccola mappa su schermo si popola di foto. Tutte istantanee di cibo, in ogni sua forma. Primi piatti italiani, grigliate di carne, cucina orientale, street food, pizza. Molta pizza. Se il mondo fosse forchetta, canterebbe Cecco Angiolieri, questa sarebbe la sua pornografia. In realtà è solo l’ultima frontiera delle reti sociali.
Foodspotting 1, in inglese, significa più o meno “avvistare il cibo”. E il social network omonimo, dedicato ai proprietari di smartphone con la passione per la cucina, fa esattamente questo: permette di vedere il cibo. Ma soprattutto di fotografarlo, in qualsiasi ristorante, pizzeria, tavola calda o chiosco del globo, e di condividerlo online, pronto per essere votato, commentato e, in ultima analisi, salivato dagli altri utenti.
L’idea di Foodspotting non è dissimile da quella dei più recenti social network fotografici, come Instagram 2, Path 3 o Piczl. Ma se su Instagram si condividono foto artistiche, su Foodspotting il tema esclusivo è la gastronomia. L’applicazione, che ha appena festeggiato un anno di vita, è disponibile su iPhone e Android, ma presto sbarcherà anche su BlackBerry. Ad oggi, si appoggia su un database di oltre mezzo milione di foto, alimentato da una comunità di circa 800.000 utenti solo su iPhone. E dopo gli Stati Uniti, ha cominciato a diffondersi anche in Italia.
L’intuizione è di due ragazzi di San Francisco, Ted Grubb e Alexa Andrzejewski, che hanno costruito intorno al cibo una vera e propria esperienza sociale, sulla falsariga di quella di FourSquare e Gowalla, i social network dei luoghi. Ogni cibo può essere fotografato, geolocalizzato e votato, segnalandone la qualità con un’apposita coccarda. Accumulando segnalazioni di piatti è possibile guadagnare “distintivi” da esperto, da ostentare nel proprio profilo da gourmet. Il modo più veloce per assurgere alla fama è invece quello di creare una guida tematica, stilando il proprio elenco di cibi e ristoranti consigliati, che gli altri utenti potranno poi seguire (letteralmente) sulla mappa digitale. E il gotha dell’alta cucina sembra aver raccolto con gusto l’invito, se è vero che tra le guide più seguite ci sono già quelle di alcune famose riviste o di chef di fama internazionale. Perché la gastronomia, in fondo, è prima di tutto una questione di fedeltà.
Social netfork. Foodspotting, in realtà, è solo il primo esperimento di successo nel campo delle food-community fotografiche. Ma come per ogni nuovo fenomeno in crescita, i concorrenti non si sono fatti attendere. È il caso di Chewsy 4, un’applicazione per smartphone sviluppata nel tempo libero da un piccolo gruppo di dipendenti Microsoft, ma che già ha raccolto un discreta community di appassionati negli Stati Uniti. Anche in questo caso il cibo si fotografa e si condivide, ma a differenza di Foodspotting qui prevale l’approfondimento. In primo luogo, gli utenti sono invitati a scrivere recensioni più accurate, per non relegare la segnalazione all’invio di una foto. A ogni piatto, inoltre, è possibile assegnare un voto specifico (da uno a cinque cucchiai), esprimendo quindi anche giudizi negativi.
E la storia si ripete. Solo alcuni mesi fa, l’universo digitale aveva registrato il boom di Instagram, il social network della fotografia graziato da oltre un milione di iscritti dopo nemmeno tre mesi dal lancio. Un successo che aveva aperto il campo ad altri competitor, come l’ambizioso Path (una rete sociale volutamente ristretta agli amici più intimi), il discusso Color 5 (progettato per condividere le foto geograficamente) o il prossimo ZangZing. Ora tutto può essere replicato in chiave gastronomica. E gli smartphone, a quanto pare, stanno lasciando le strade per accomodarsi a tavola.
Fonte: http://www.repubblica.it
