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Categoria: Approfondimenti Pagina 20 di 25

Il Web italiano vale 31,6 miliardi, e la politica dorme

Il Web italiano vale 31,6 miliardi di euro, praticamente il 2% del prodotto interno lordo nazionale: chi l’avrebbe detto che la politica italiana è così miope? La web-economy, stando ai dati di un rapporto di Boston Consulting Group, è una gallina dalle uova d’oro di cui tutti si disinteressano, ma che frutta di più della ristorazione (neanche il 2%). Eppure sui media tradizionali e in Parlamento si parla di più di chef e ristoranti che di Internet.
Il Web italiano vale 31,6 miliardi di euro, praticamente il 2% del prodotto interno lordo nazionale: chi l’avrebbe detto che la politica italiana è così miope? La web-economy, stando ai dati di un rapporto di Boston Consulting Group, è una gallina dalle uova d’oro di cui tutti si disinteressano, ma che frutta di più della ristorazione (neanche il 2%). Eppure sui media tradizionali e in Parlamento si parla di più di chef e ristoranti che di Internet.

“Fattore Internet – Come Internet sta trasformando l’economia italiana” è stato commissionato da Google per inquadrare al meglio la condizione del nostro paese. Ebbene, dei 31,6 miliardi di euro “generati” nel 2010 ben 17,4 miliardi provengono dal segmento consumer, 11,2 miliardi dalle aziende private e 7,1 miliardi dallo Stato. Al netto di 4,1 miliardi di importazioni, il conto è facile.

“Dei 17,4 miliardi della voce “consumo” il 65% (oltre 11 miliardi) è dato dall’acquisto di prodotti, servizi e contenuti online. In pole position tra i servizi c’è sempre il turismo, che batte informatica, elettronica di consumo, assicurazioni e abbigliamento”
Il Web italiano vale 31,6 miliardi di euro, praticamente il 2% del prodotto interno lordo nazionale: chi l’avrebbe detto che la politica italiana è così miope? La web-economy, stando ai dati di un rapporto di Boston Consulting Group, è una gallina dalle uova d’oro di cui tutti si disinteressano, ma che frutta di più della ristorazione (neanche il 2%). Eppure sui media tradizionali e in Parlamento si parla di più di chef e ristoranti che di Internet.
“Mentre tra i contenuti digitali i più ricercati non sono le news, ma il gaming e nello specifico il poker online, che nel 2010 ha registrato una raccolta di oltre 3 miliardi di euro. Il rimanente 35% della voce consumo (circa 6,4 miliardi) se ne va nell’hardware per connettersi in rete, in tablet, smartphone e ovviamente nelle bollette telefoniche”.

Il capitolo chiave del rapporto riguarda lo sviluppo delle PMI: le aziende che negli ultimi tre anni hanno attivato un sito Internet, sviluppato servizi e-commerce e fatto attività di web marketing hanno registrato ricavi medi superiori all’1,2%, contro “la flessione 2,4% di quelle dotate solo di sito-vetrina e il -4,5% di quelle che hanno snobbato completamente l’online”.

Boston Consulting Group conclude che entro il 2015 il Web italiano varrà 59 miliardi di euro.

Fonte: http://www.tomshw.it

Decollano gli accessi a Facebook da cellulari e tablet e arriva un’unica versione per il mobile

Se fosse una nazione, sarebbe la quarta più popolata al mondo dopo Cina, India e Stati Uniti. Decollano gli accessi a Facebook da cellulari e tablet: il social network ha appena superato la soglia di 250 milioni di utenti unici mensili che leggono le sue pagine in strada, in viaggio o a casa senza impiegare una connessione alla rete fissa.

Per accedere ai loro profili utilizzano le applicazioni software da iPhone, Blackberry, Nokia e smartphone con il sistema operativo Android. La maggior parte naviga attraverso i browser. Anzi, Facebook ha semplificato l’interazione per il suo pubblico. Finora aveva una pagina dedicata ai dispositivi con schermo touch e un’altra per i cellulari meno potenti. Ma gli sviluppatori software hanno ammesso che era troppo complesso gestire l’evoluzione di ogni versione del social network. E quindi hanno costruito una singola piattaforma all’indirizzo m.facebook.com. Nel mondo la rete sociale online lanciata da uno studente di Harvard, Mark Zuckerberg, e da tre suoi amici del college ha raggiunto 600 milioni di persone.
Ma per le successive espansioni Facebook guarda ai paesi in via di sviluppo, a partire dall’India dove ha aperto di recente un centro per gli sviluppatori software e ha conquistato il podio come social network più frequentato, sottraendo il primato a Orkut. Diventa decisivo l’accesso da cellulare, soprattutto nelle aree non raggiunte da connessioni fisse. Secondo l’Itu alla fine dell’anno scorso erano 5,3 miliardi gli utenti di telefonia mobile: può collegarsi ai network di telecomunicazione il 90% della popolazione. E Facebook si prepara all’avanzata. Ha comprato Snaptu: è un’azienda specializzata nell’arricchimento dell’interazione con il social network attraverso gli schermi di cellulari meno potenti degli smartphone.
L’espansione procede rapida. Lo scorso febbraio la rete sociale online aveva 100 milioni di utenti attivi che leggevano le sue pagine in mobilità, raddoppiati a novembre. E da allora si sono aggiunte altri 50 milioni di persone.

Fonte: http://www.ilsole24ore.com

Varate le regole per le pubbliche amministrazioni online

Solo informazioni indispensabili. Tecnologia contro le manipolazioni

ROMA Online solo informazioni personali indispensabili. Tempi congrui di permanenza in rete. Misure tecnologiche contro manipolazione e duplicazione massiva dei file. Cautele nel consentire la reperibilità dei dati attraverso motori di ricerca esterni ai siti. Il Garante per la protezione dei dati personali ha fissato le regole in base alle quali le pubbliche amministrazioni possono diffondere on line atti e documenti amministrativi contenenti dati personali senza ledere la riservatezza di cittadini e dipendenti e rispettare i principi stabiliti dalla normativa sulla privacy.

Le “Linee guida” appena varate dall’Autorità definiscono un primo quadro unitario di misure e accorgimenti che la P.a. deve adottare sia nel caso che la pubblicazione on line sia effettuata a fini di trasparenza dell’attività amministrativa, di pubblicità degli atti o di consultazione da parte di singoli soggetti. Il provvedimento, frutto di un complesso lavoro istruttorio, tiene conto anche delle osservazioni pervenute da diverse amministrazioni pubbliche, enti locali e associazioni di consumatori nell’ambito della consultazione avviata nei mesi scorsi dal Garante.

Queste in sintesi le principali indicazioni contenute nelle Linee guida: le amministrazioni pubbliche possono mettere in rete atti o documenti contenenti dati personali solo sulla base di una norma di legge e di regolamento che lo preveda e devono rispettare i principi di necessità, proporzionalità e pertinenza. Rimane fermo il generale divieto di diffondere dati sulla salute.

Contro i rischi di cancellazioni, modifiche, estrapolazioni delle informazioni presenti on line devono essere adottate adeguate misure tecnologiche. La reperibilità dei documenti deve essere, se possibile, assicurata attraverso motori di ricerca interni al sito della singola amministrazione e limitando l’indicizzazione dei documenti da parte dei motori di ricerca esterni. L’uso di motori di ricerca interni consente infatti di garantire un accesso coerente con la finalità per la quale i dati sono stati resi pubblici ed evita il rischio di manipolazione e di “decontestualizzazione” dei dati, cioè la estrapolazione arbitraria che rende incontrollabile il loro uso.

I dati devono comunque rimanere disponibili soltanto per il tempo previsto dalle norme di settore. In mancanza di queste, le pubbliche amministrazioni devono individuare congrui limiti temporali oltre i quali i documenti devono essere rimossi. Infine, contro i rischi di riproduzione e riutilizzo dei file contenenti dati personali, devono essere installati software e sistemi di alert che consentono di riconoscere e segnalare accessi anomali al fine di mettere in atto adeguate contromisure.

Fonte: http://www.lastampa.it

I migliori siti ecommerce italiani 2011

Le aziende scommettono su web marketing e social media marketing. Quali sono quelle preferite dai consumatori italiani? E quali esibiscono la miglior pagina “social”? In crescita i numeri del commercio elettronico.

Dove fare shopping online? I negozi virtuali sono affidabili come quelli reali? Stando alla cura con cui alcune aziende trattano il web e, soprattutto, sulla base dei numeri in crescita dell’ecommerce, non c’è dubbio che, una dopo l’altra, sono state abbattute quasi tutte le barriere all’acquisto online. La conferma giunge dall’analisi del Terzo Osservatorio Italiano sull’e-Business effettuata da eBit Innovation e Demoskopea.
Sono state premiate 12 aziende, suddivise per categoria, sulla base delle preferenze dei consumatori per la capacità di creare una relazione sul web tra azienda e consumatore.

I siti sono: H&M (settore abbigliamento), Ikea (arredamento), Genertel (assicurativo), Intesa Sanpaolo (bancario), Coca Cola (beverage), Bottega Verde (cosmetica), Henkel (detergenza), Mediaworld (distribuzione elettronica di consumo), Nokia (elettronica di consumo), Dolce & Gabbana (fashion), Esselunga (grande distribuzione alimentare), Ducati (moto).

Interessanti anche i riconoscimenti per la miglior pagina “social”. I primi 3 classificati sono Nutella (Ferrero), Max Factor (Deborah Group) e Ikea. Crescono l’utilizzo del web marketing (71%), del social media marketing (58%) e dell’attività su mobile (35%). Spiega Fabrizio Angelini, amministratore delegato di Demoskopea: “L’Osservatorio conferma come il web sia sempre di più l’ambiente in cui il consumatore matura la decisione di acquisto e l’importanza crescente degli strumenti di condivisione e socializzazione dell’informazione nel processo di scelta del prodotto o servizio”.

Fonte: http://www.webmasterpoint.org

Il web cambia la pubblicità e anche la tv diventa “smart”

Il Politecnico di Milano fa una fotografia dettagliata dei media italiani. Ecco come stanno cambiando tv, giornali e periodici al tempo di Facebook e dell’iPad. Il boom italiano dei “social media”

C’è chi ride e c’è chi piange. Ma soprattutto, c’è chi non sa se fare la prima o la seconda cosa. La fotografia scattata dal Politecnico di Milano ai media italiani è piena di promossi, bocciati e tanti rimandati che in futuro potrebbero però diventare la punta di diamante dell’intera classe. Rispetto all’anno precedente, periodo nero per i bilanci, nel 2010 torna il segno positivo e oltre allo strapotere della televisione in termini di introiti pubblicitari, anche il Web comincia a farsi sentire. Generando utili tali che, in prospettiva, potrebbero forse avere un ruolo non marginale. Infine i nuovi modelli di business tutti ancora da verificare, da Facebook alle “smart tv”, al mondo delle applicazioni, che per ora valgono pochi spiccioli ma sui quali in tanti stanno scommettendo..
Nel 2010 il mercato complessivo dei media, considerando sia la pubblicità sia i ricavi provenienti dai servizi a pagamento, cresce di circa tre punti percentuali (3,3%). Non è cosa da poco, se si tiene presente il crollo del 2009, pari a -10%. Stiamo parlando grosso modo di 17 miliardi di euro generati dalla tv (+5%), stampa (-4), radio (+12%), Internet (+13%), piattaforme mobili che includono ovviamente smartphone vari, iPad e concorrenti (+15%).  I pesi però, inutile dirlo, sono differenti. Il settore
televisivo vale da solo il il 55%, quello della carta stampata il 34, segue poi il Web con appena il 6,5%, le radio con il 3 e la telefonia mobile con il 1,5%. “A ben guardare il mondo dei media in Italia ha ancora oggi una struttura antica”, sintetizza Andrea Rangone, che ha coordinato la ricerca del Politecnico. “E’ uno dei pochi settori che negli ultimi 20 anni è cambiato pochissimo. Ora però all’orizzonte si stanno affacciando dei mutamenti profondi che riguardano tutti senza distinzioni”.

La tv e le sue trasformazioni
Continua a dominare, anche se è in via di cambiamento. Il passaggio al digitale terrestre a fine anno ha riguardato il 64% della popolazione italiana. I soliti noti, Mediaset e Rai in primis, hanno occupato le frequenze digitali aumentando, o forse dovremmo dire duplicando, il numero di canali da 53 a 92. Cresce anche l’offerta di Sky sul satellitare che ha aggiunto 24 canali in più rispetto al 2009, siamo attualmente a 334, puntando sull’alta definizione. Ad oggi sono ben 36 canali in hd sul satellite contro i 7 che può vantare, per limiti di banda, il digitale terrestre. Buon per noi consumatori, che da questa competizione combattuta non solo sul fronte dell’offerta ma anche su quella dei prezzi degli abbonamenti e pay-per-view, abbiamo guadagnato. Tant’è che da una parte l’arricchimento dell’offerta contribuisce alla crescita della pubblicità sui canali digitali terresti e satellitari, siamo a un più più 26% (530 milioni di euro, pari al 14% della raccolta pubblicitaria), dall’altra la competizione sul prezzo tra Mediaset Premium e Sky genera una riduzione complessiva dei ricavi dei servizi a pagamento di quasi dieci punti percentuali.

Anche il piccolo schermo diventa “smart”
Il Politecnico di Milano le chiama “connected tv”, altri preferiscono il termine di “smart tv”, preso in prestito da quello dei cellulari alla iPhone (smartphone), visto che son due tipologie di apparecchi che cominciano a condividere diversi aspetti. Si tratta di televisioni e decoder che, potendosi collegare al Web, consentono di fruire contenuti multimediali provenienti a quel mondo. E’ un fenomeno nuovo, anzi forse il fenomeno tout court di questo 2011 per quel che riguarda il piccolo schermo. A fine 2010 erano circa 2.7 milioni le “connected tv” in Italia, ma solo una piccola parte, (meno del 10%) 180 mila, erano realmente collegate a Internet. Ora però si cominciano a vedere i primi modelli con wi-fi integrato e la nascita di negozi di applicazioni per televisori che dovrebbero rendere molto più immediata la fruizione via Rete dei tanti servizi che stanno nascendo. Non a caso sono fioriti anche i decoder esterni da collegare al televisore che fanno in pratica la stessa cosa. Da Apple Tv a TvBox di Tiscali, a Cubovision di Telecom Italia, a Hybrid BlobBox di Telesystem e in futuro a Google Tv. Secondo il Politecnico potrebbe diventare uno dei trend di maggiore interesse nei prossimi due o tre anni.

Il boom dei “social media” in Italia
“Sono quattro, a nostro avviso, i trend principali che hanno caratterizzato il mondo Internet nel 2010”, racconta Andrea Rangone. “Due all’insegna dell’evoluzione rispetto al 2009 e due completamente nuovi. I due trend di natura evolutiva sono la diffusione dei social network e la proliferazione dei contenuti video sui siti di informazione. Quelli nuovi invece sono la trasversalità del modello di business delle applicazioni, passa dai cellulari alle tv fino ai pc, e l’imporsi di una nuova tipologia di dispositivi come i’iPad”.

Partiamo dai social network o, come li chiama Rangone, dai “social media”. Sono oltre 21 milioni gli utenti registrati ad almeno un social network, pari ad oltre l’80% di tutti gli utenti Internet attivi italiani. Il ruolo dominante è svolto da Facebook che, a fine 2010, ha sfiorato i 18 milioni di utenti arrivando a coprire oltre il 90% dei giovani italiani tra 0 e 24 anni ed il 63% di quelli tra i 25 ed i 30 anni. Il tempo speso sui social media mensilmente dalle persone è di circa 7 ore, solo gli australiani da questo punto di vista ci superano. Ed è un settore che si sta spostando su piattaforma mobile: oltre 4 milioni gli Italiani accedono ai social network tramite smartphone.

“Sono due, a nostro avviso, i punti interrogativi che riguardano i social network”, puntualizza Andrea Rangone. “Il primo riguarda i ricavi, il secondo invece il ruolo svolto nei confronti degli altri media. Per quanto riguarda il primo punto, visto il modello essenzialmente basato sulla pubblicità, non si capisce bene la reale capacità di rendere interessante per gli investitori pubblicitari un ambiente dove i contenuti non sono controllabili (essendo user-generated).

Quell’universo parallelo chiamato Facebook
Un discorso a parte merita Facebook che va visto come un modo diverso di concepire Internet. Mondo complementare, se non alternativo, all’Internet marchiato Google. Il cuore è rappresentato infatti non più da un motore di ricerca, ma dalle relazioni sociali. “Proprio per questo Facebook sta diventando un ecosistema”, continua Rangone. “Ecosistema in cui trovano una loro collocazione tutti i mercati sviluppati negli ultimi 18 anni nel mondo Internet tradizionale: quello della pubblicità, dei contenuti digitali, dei giochi, dell’e-commerce e via discorrendo”. I ricavi quindi saranno diversificati e diversificabili, andando dagli introiti pubblicitari alla vendita di abbonamenti, di contenuti, di prodotti, servizi.

I social network stanno però modificando anche la fruizione stessa del Web, che in Italia a volte diventa sinonimo di Facebook. Dall’altro le discussioni e i confronti fra gli utenti su queste piattaforme contribuiscono a creare interesse per i temi proposti da altri media, come i siti di informazione, incrementandone l’utilizzo. “Difficile capire quale sia l’effetto preponderante di Facebook sui media tradizionali”, continua Rangone. “L’approccio di chi ha sviluppato progetti in questo ambito è stato al momento quello di “buttare il cuore al di là dell’ostacolo” credendo fortemente nel mezzo e nelle sue potenzialità, senza avere ancora la possibilità di misurare oggettivamente i risultati.

E Internet rischia di morire per mano degli app store
Il secondo fenomeno di natura evolutiva che ha caratterizzato il Web nel 2010 è la proliferazione dei Video che vengono utilizzati da qualsiasi editore presente online per arricchire la propria offerta. Gli utenti unici mensili che fruiscono in Italia di video online sono quasi 15 milioni, pari al 60% degli utenti Internet attivi. Nel 2010 si sono innescate anche due dinamiche completamente nuove: il lancio dell’iPad che “inventa” una nuova famiglia di terminali per l’accesso ai contenuti Internet, e la trasmigrazione dal mondo degli smartphone al mondo dei pc del concetto di Application Store. Questi due fenomeni, secondo il Politecnico di Milano, stanno portando ad un cambiamento del concetto stesso di Internet, che si allontana non poco da quello a cui siamo stati abituati fino ad oggi. Dando quindi ragione alle teorie di Chris Anderson, direttore di Wired, che quest’estate decreto la morte della Rete proprio per mano del crescente traffico legato ai negozi di applicazioni. Da noi gli editori hanno sviluppato 221 applicazioni diverse per smartphone e 126 per iPad legate a prodotti editoriali. Nel primo caso la parte del leone la fanno i periodici con il 44% delle applicazioni disponibili (ma sono solo il 4% dei periodici esistenti in edicola), seguiti dal 24% dei quotidiani (uno su due ha una sua applicazione), il 20% delle radio (presenti sugli app store nel 70% dei casi) e delle tv che sono ferme al 12% (8% delle emittenti italiane ha una sua app). A gennaio 2011, il 5% delle testate analizzate, quotidiani, periodici, canali tv e radio, ha un’applicazione appositamente dedicata su iPad. La maggior parte fa riferimento a testate cartacee visto che i tablet, stando al Politecnico, costituiscono una piattaforma particolarmente adatta all’esperienza di lettura di contenuti multimediali. In realtà nella maggior parte dei casi le applicazione prese in esame dalla ricerca si sono dimostrate una mera trasposizione su iPad della testata cartacea.

Il problema, sottolineano al Politecnico, è che i ricavi da questo mondo sono ancora ridicoli. “Bisogna però fare attenzione”, spiegano. “La forza degli app store non sta tanto nei numeri attuali, ma nel cambiare paradigma. Si passa da un mondo dove tutto è gratuito come quello del Web, a un mondo dove le persone sono molto più disposte a pagare per i contenuti. E questa è davvero una mezza rivoluzione.

Il dramma dei periodici sul Web
L’Osservatorio ha svolto una specifica ricerca sull’editoria periodica. E a sorpresa vin fuori che solo il 52% delle testate periodiche ha una presenza sulla Rete con un sito proprio o condiviso con più testate. Di queste il 63% è percepito come di basso valore dall’utente e, spesso, senza alcun reale modello di business. Dato sorprendente visto il calo degli introiti pubblicitari sulla carta stampata che dovrebbe spingere gli editori ad essere più dinamici su Internet. “Anche perché”, racconta Andrea Rangone, “attraverso la presenza online è possibile colmare il vuoto che intercorre fra l’uscita in edicola di un numero e la successiva, ed è possibile intercettare una nuova fascia di utenti differenziando i contenuti proposti rispetto all’edizione cartacea Infine, sul Web, è possibile gestire in modo più completo e strutturato il cliente che può essere conosciuto in modo molto più preciso”. Occorre però inventare un prodotto differente, adatto alla Rete, che attragga e stimoli gli utenti. E a quanto pare è proprio qui che cominciano i problemi. E questo ci porta all’ultima parte della ricerca, una serie di consigli da seguire in questi tempi digitali tanto burrascosi per gli editori.

I ricavi della stampa online
I ricavi generati dal mondo Internet pesano sul mercato media complessivo solo il 22%. Troppo poco per compensare la riduzione dei mezzi più tradizionali (stampa in particolare) e per consentire di ripagare adeguatamente gli investimenti di coloro che operano online (fatta eccezione per Google “piglia tutto”).  La soluzione? Secondo il Politecnico bisogna puntare sia su un incremento dei ricavi da pubblicità, sia sulla generazione di nuovi ricavi da servizi/contenuti pay.

Nel primo caso sfruttando i nuovi device come smartphone, tablet e mondo delle applicazioni, e lavorando contemporaneamente sulla creazione di un ecosistema che non sia vittima degli attuali metodi di calcolo della pubblicità sull’online. Si tratta in pratica di far comprendere il reale valore di questi nuovi canali di comunicazione agli investitori guardando oltre gli strumenti di misurazione oggi adottati. E questo significa passare attraverso lo sviluppo di competenze specifiche all’interno degli attori storici del mercato della pubblicità che oggi esistono in maniera marginale.

Le cinque regole per non annegare nella Grande Rete di domani
La ricerca del Politecnico di Milano sui media in Italia si chiude con cinque regole per riuscire a ritagliarsi uno spazio nel mercato di domani. Eccole di seguito.

Rifuggire dalla “one best way” e dall’effetto moda. Non esistono strade uguali per tutti e, soprattutto, non esistono strade più o meno di moda. Oggi basta sentire parlare qualunque analista, “esperto” o provider, e sembra che la soluzione a qualsiasi problema in ambito digitale sia rappresentata dall’iPad e dalle Applicazioni. Una strategia orientata solo a cavalcare questi nuovi paradigmi  –  per quanto rivoluzionari e rilevanti  –  non basta certo a creare le basi per un successo duraturo e rilevante nei mercati digitali.

Cercare la propria identità digitale dentro sé stessi. Ogni organizzazione deve guardarsi all’interno, comprendere il proprio dna in termini di risorse e competenze (testate, posizionamento, capacità di produzione di contenuti, base utenti e via discorrendo.) e, coerentemente, inventare una propria strategia digitale, senza seguire necessariamente la strada percorsa da altri. Il mondo digitale mette in crisi l’identità “tradizionale” degli editori, che non possono più fare riferimento ai modelli di business del passato, ma non l’insieme di risorse e competenze chiave sviluppate.

Fonti di ricavi nascoste. Sui mercati digitali non esistono esclusivamente i clienti/utenti del mondo analogico tradizionale, le “solite” value proposition, le “solite” fonti di ricavo (pubblicità o vendita di contenuti premium). Nel mondo digitale i mercati possono essere riconfigurati, i confini delle aree di business cambiati, le filiere ridefinite, le strategie reinventate. Esistono casi estremamente interessanti di aziende che sono riuscite ad inventarsi nuove forme di ricavo legata all’offerta di servizi innovativi, prima, neppure lontanamente immaginabili nel mondo analogico.

Puntare su una strategia multicanale. È sempre più evidente che il mondo digitale si sta articolando su una molteplicità di differenti piattaforme, in parte correlate, ma con una forte identità specifica: smartphone, tablet, pc, tv, applicazioni, web, carta. Occorre puntare su una strategia che sappia abbracciarle tutte, con elementi trasversali, ma anche peculiarità verticali. Ma multicanalità significa anche sapere sfruttare i canali digitali per portare valore al canale offline tradizionale. Non sono pochi gli esempi di imprese che sono riuscite a incrementare le copie vendute in edicola con una oculata strategia digitale.

Costruire un’organizzazione flessibile e fondata sulla sperimentazione. In un contesto completamente nuovo come quello digitale, essendo impossibile prevedere le evoluzioni e le azioni migliori, occorre puntare su un’organizzazione capace di sperimentare velocemente, di apprendere dalle esperienze  –  e anche dai fallimenti  –  per mettere a punto in modo tempestivo e flessibile nuove strategie e azioni.

“In sintesi”, conclude Rangone, “possiamo riassumere tutti i punti sopra riportati in un’unica espressione: occorre un passaggio culturale da media company a “media entrepreneur”. Passaggio che presuppone un cambiamento culturale non da poco in organizzazioni spesso grandi e complesse non molto abili nel sapersi adattare”.

Fonte: http://www.repubblica.it

Telefonini, palmari e pc l’era del lavoro no-limits

ALL’INIZIO fu il Commodore 64. Poi sono arrivati i cellulari, internet, la banda larga, le mail, i bip-bip dei Blackberry, l’esercito dei tablet, Skype e le teleconferenze. Una manna, garantivano. La chiave hi-tech per liberare dopo millenni l’uomo dalla schiavitù del lavoro consentendogli – come vaticinava John Maynard Keynes – “di dedicargli un massimo di 15 ore alla settimana”. Peccato che non sia andata proprio così: le nuove tecnologie ci hanno consentito di moltiplicare la nostra efficienza per quattro (oggi produciamo in 9 ore quello che nel 1950 si faceva in 40) ma il nostro orario d’ufficio non si è accorciato di un secondo. Anzi: il progresso, con buona pace di Keynes, ci ha portato dritti-dritti tra le braccia della “24-hours economy”, come dicono gli inglesi. Un’era in cui non solo si lavora di più – da metà anni ’70 il tempo passato alla scrivania o in fabbrica ha ripreso ad allungarsi – ma soprattutto non si riesce più a staccare la spina: ogni sera spegniamo il computer, timbriamo il cartellino e rientriamo in famiglia. Ma l’ufficio – complici le meraviglie della tecnica – viene con noi.

Sotto forma di una pioggia di mail, videochiamate, file e documenti da controllare mentre si cambiano i pannolini ai bambini, l’arrosto in forno manda un preoccupante odore di bruciato e il cane, nervosissimo, scodinzola davanti alla porta in attesa della passeggiatina serale.
Benvenuti nel secolo del lavoro senza confini (di tempo). Dell’ufficio virtuale – un uomo, il suo telefono e il suo pc – aperto
ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette. Un mondo dove i paletti tra dovere e piacere sono saltati, così come – spesso – quelli tra giorno e notte. Il tran-tran dell’orario 9-17 è solo un bel ricordo: ci si sveglia compulsando dal letto (per lavoro) la posta elettronica, ci si addormenta cullati dal tenue chiarore di un foglio Excel sull’IPad, per poi alzarsi a metà notte per una teleconferenza con Seattle. Una rivoluzione che poco alla volta sta stravolgendo metabolismo e abitudini di mezzo mondo mettendone a rischio non solo le relazioni sociali ma pure, dicono gli esperti, la salute.

Il primo allarme sulla rivoluzione silenziosa del lavoro no-limits è stato lanciato, non a caso, della Organizzazione mondiale della Sanità. Al mondo, dicono le statistiche dell’International Labor Organization, un dipendente su cinque è impegnato oggi più di 48 ore alla settimana. Uno zoccolo duro cui si è aggiunto adesso l’esercito di stakanovisti costretti da Blackberry & C. a spalmare sulle 24 ore la propria reperibilità professionale. L’Oms ha sottoposto a uno screening scientifico queste categorie di persone e alla fine, dati inconfutabili alla mano, ha inserito il lavoro fuori orario tra le possibili cause di rischio sanitario con un aumento dal 30 all’80% della possibilità di contrarre patologie tumorali.

Per gli esperti si tratta solo di una conferma. Il Giappone – dove la fedeltà e la produttività di un dipendente sono direttamente proporzionali al tempo che passa inchiodato alla scrivania o incollato allo schermo del pc da casa – è stato costretto a coniare un termine ad hoc, karoushi, per definire le morti causate da overdose da lavoro. Diverse grandi aziende hanno pagato indennizzi stratosferici alle famiglie degli impiegati spremuti come limoni e poi stroncati dagli straordinari. E oggi tutti i big della Tokyo Spa, imparata la lezione a colpi di yen, hanno imposto paletti rigidissimi alle ore di lavoro extra, compreso quelle sbrigate a domicilio. Altrove si preferisce prevenire. La Corea – recordman mondiale nel campo con 2.301 ore all’anno di lavoro a testa, il 33% in più dell’Italia – ha molto prosaicamente varato un “procreation day”. Un giorno in cui tutti sono costretti a tornare a casa alle 19 di sera e a non accendere più pc o telefonini fino al mattino seguente. Obiettivo dichiarato: dedicarsi ai piaceri (dimenticati) della vita coniugale e, possibilmente, a mettere in cantiere nuove braccia per l’economia del Paese.

La scienza del resto, parla chiaro: l’uomo (e gli animali) non sono fatti per lavorare 24 ore su 24. I ritmi circadiani del nostro metabolismo sono uno strumento complesso, calibrato con il bilancino: abbiamo almeno un centinaio cicli vitali – dalla temperatura alla produzioni di enzimi fino all’attività cerebrale – legati a filo doppio all’alternanza giorno-notte, con alti e bassi nei loro valori che condizionano di molto la nostra efficienza mentale. Farli saltare, come accade nella 24 hours economy, significa non solo mettere a rischio la salute, ma pure (un argomento che le leggi del capitalismo capiscono molto bene) ridurre drasticamente la produttività.

La Queen Mary University di Londra, nel dubbio, ha provato a testare le capacità al riguardo del più indefesso dei lavoratori del regno animale: le api. Gli scienziati inglesi hanno applicato identificatori radio sul corpo di 1.049 “operaie” di un alveare in Finlandia nell’estate artica, quando tutte le piante sono in fiore e il sole brilla in cielo 24 ore su 24. Risultato: “Malgrado la possibilità di lavorare senza interruzione, gli insetti si ritiravano a riposare nei favi dalle 23 di sera fino alle 8 del mattino – spiega Ralph Stelzer, uno dei coordinatori dell’esperimento – dimostrando che il beneficio del riposo in termini di produzione di miele è superiore a un orario di lavoro allungato sull’intera giornata”. La stessa conclusione cui era arrivato grazie al suo intuito Henry Ford, storico fondatore dell’omonima casa automobilistica americana, il primo tra i grandi tycoon a stelle e strisce a tagliare unilateralmente la durata della giornata lavorativa dei suoi dipendenti: “Se non hanno tempo per divertirsi e consumare chi comprerà mai le nostre macchine?”, diceva. Concetto su cui oggi, a forza di dimostrazioni con algoritmi, concordano persino i cervelloni di Harvard e del Mit.

“Un buon equilibrio tra lavoro, riposo e tempo libero è il segreto di un’economia che funziona”, assicura Jon Messenger dell’Ilo. I numeri confermano: la spagnola Iberdrola ha eliminato due ore di pausa a metà giornata (il corrispondete della vecchia siesta) consentendo ai suoi dipendenti di tornare a casa alle 16 di pomeriggio, registrando un’impennata di produttività e un netto calo dell’assenteismo. La città di Houston ha varato il piano “Flex in the city”, convincendo molte imprese locali a liberalizzare l’orario d’ingresso per ridurre il traffico e facilitare i viaggi dei pendolari. Risultato: ingorghi a picco e un taglio del 58% per lo stress misurato sui lavoratori.
“Non c’è dubbio che il mondo si è globalizzato e che le tecnologie ci consentono e in qualche modo ci costringono a rivedere la flessibilità dei nostri orari”, ammettono alla Ilo. Ci vogliono più negozi aperti anche la notte. Qualche conference call fuori orario va messa in conto. Ma la 24-hours economy, se non altro per puri motivi di salute, “non può diventare la regola”. In fondo gli studi antropologici condotti in questi anni sulle tribù dei Machiguenga, nell’Amazzonia, dimostrano che Keynes, invece che guardare avanti, avrebbe fatto meglio a guardare indietro. I fieri indios peruviani dedicano al lavoro (nel loro caso la caccia) 4 ore e 56 minuti in media al giorno. Poi, felici, pensano solo a se stessi. Nel mezzo della foresta pluviale, per loro fortuna, non c’è campo per il Blackberry.

Fonte: http://www.repubblica.it

A New York l’iPad diventa anche registratore di cassa

L’applicazione ShopKeep permette di fare pagamenti e inventariare la merce

NEW YORK Non solo per l’informazione e per l’intrattenimento, l’iPad diventa anche strumento di lavoro per i negozianti, grazie ad un’applicazione, ShopKeep, che lo trasforma in un registratore di cassa o, con un termine più moderno, un Pos (Point of Sale).

L’idea è nata a Jason Richelson, un rivenditore di vini newyorkese di adozione e originario della Florida. «Era l’estate del 2008 – spiega mentre tiene in mano un iPad e controlla il volume di affari della giornata – ed inspiegabilmente il sistema dei pagamenti del mio negozio è andato in tilt. Nè il mio manager, nè io da lontano siamo riusciti a rimetterlo in funzione. Allora mi sono detto che volevo essere in grado di accedere alla mia attività da lontano semplicemente connettendomi tramite un computer ».

Da lì è nato ShopKeep, sistema che sfrutta l’iPad (o anche l’iPhone) per funzionare. Centinaia di rivendite negli Stati Uniti usano già Square, ma questo sistema «è solo per i pagamenti – spiega Richelson – ShopKeep invece fa anche l’inventario della merce esistente. Inoltre Square ha alle spalle un nome come Jack Dorsey, co-fondatore e presidente di Twitter e un investimento di circa 36 milioni di dollari. ShopKeep invece è partito da me con soli 400mila dollari».

I clienti principali del nuovo sistema sono soprattutto sulla West Coast. Si tratta di caffetterie, pasticcerie, panifici e venditori ambulanti. A New York ShopKeep ha debuttato un paio di mesi fa in una delle caffetterie della Columbia University e in un punto vendita ambulante a Grand Central. Il sistema consente ad un rivenditore di controllare a distanza le vendite da diversi iPad in posti diversi, e abbatte i costi.

Fonte: http://www.lastampa.it

Gli e-books fanno litigare biblioteche ed editori

I “Libri elettronici” sono sempre più diffusi. E’ raro salire su una carrozza della metropolitana di New York all’ora di punta o sedersi in un caffè senza notare qualcuno che legge un e-book. E adesso gli ubiqui libri su schermo stanno facendo litigare gli editori e le biblioteche, divisi da un contenzioso che fino a qualche anno fa non sarebbe potuto esistere. Le biblioteche vogliono trattare i libri elettronici come quelli di carta: una copia, una volta comprata, può essere prestata un numero illimitato di volte. Finora gli editori avevano accettato, ma adesso uno di loro ha rotto i ranghi e aperto una polemica destinata ad avere conseguenze rilevanti.

Harpercollins, una delle principali case editrici d’America, che pubblica tra gli altri anche Sarah Palin, ha infatti modificato le modalità di utilizzo dei propri e-book da parte delle biblioteche. Non più per sempre, ma solo per 26 volte. Poi bisogna comprare una nuova copia elettronica.

Il cambio di rotta di Harpercollins ha suscitato le ire dei bibliotecari, che ritengono le nuove regole ingiuste e promettono di boicottare le pubblicazioni dell’editore. “Vogliamo che nelle nostre raccolte ci siano anche gli e-book, i nostri clienti ne chiedono sempre di più e noi dobbiamo cercare di accontentarli, ma abbiamo anche la necessità di non aumentare in maniera esorbitante i costi”, ha dichiarato Anne Lee, della Free library of Philadelphia, al New York Times. Roberta Stevens, presidente dell’Associazione nazionale delle biblioteche, ha riassunto così: “I bilanci delle biblioteche sono nel migliore dei casi fermi. L’uso degli e-book è in aumento fortissimo. E c’è grave preoccupazione che gli altri editori seguano il modello” di Harpercollins. Harpercollins difende la propria decisione asserendo che l’accordo precedente era vecchio di un decennio, quando gli e-books non erano certo il fenomeno di massa di oggi. Basta pensare che alla New York Public Library, principale biblioteca della città, l’uso di e-book è aumentato del 36 per cento rispetto a solo un anno fa.

Fonte: http://www.repubblica.it

Tra 20 anni robot più intelligenti dell’uomo

Intelligenza, per Ray Kurzweil, è «capacità di risolvere problemi usando risorse limitate, come il tempo». Ebbene, il celebre inventore è convinto che in 20 anni costruiremo macchine più intelligenti di noi. Il 2045 sarà il momento della «singolarità», ovvero dell’esplosione dell’intelligenza. Rappezzandoci con le tecnologie aumenteremo esponenzialmente le nostre capacità mentali, trascendendo i nostri limiti biologici. Chi già ridacchia forse non sa che Kurzweil ha creato il primo scanner CCD, il primo sistema per riconoscere i caratteri e poi il parlato, la prima macchina che legge un testo (usata da Stevie Wonder). Ha vinto il Mit-Lemelson Prize, il maggior premio all’innovazione, ha 18 lauree honoris causa e la sua Singularity University, fondata con Larry Page, è ospitata dalla Nasa. Può valer la pena ascoltare cosa ha da dire.
La sua definizione di intelligenza comprende anche quella emotiva: «la più complessa. Far ridere, provare sentimenti, essere sexy sono comportamenti molto intelligenti. Se consideriamo solo le abilità logiche, i computer sono già superiori a noi», spiega. Quando sostiene che in 20 anni le capacità intellettive dei robot saranno pari alle nostre si basa principalmente su tre considerazioni. La prima è che le tecnologie dell’informazione progrediscono esponenzialmente (la potenza di calcolo raddoppia ogni anno); la seconda è che se stimiamo quanta capacità di calcolo serve per simulare l’intelligenza umana, questa capacità è già alla portata dei supercomputer e in 10 anni sarà in un pc. La terza riguarda l’elemento più importate di queste macchine: il software: «È una stima conservativa dire che avremo modelli di simulazione del nostro cervello funzionanti in 20 anni: la comprensione della mente fa progressi esponenziali. E ciò sarà la chiave per creare il software di simulazione dell’intelligenza umana», ha spiegato Kurzweil, ieri a Milano per un incontro organizzato da iLabs, laboratori di ricerca privati fondati 33 anni fa da Gabriele Rossi ed Antonella Canonico e finanziati coi proventi degli spin off. «Quando, nel ’98, i supercomputer batterono il campione mondiale di scacchi, la gente disse che non sarebbero mai stati capaci di capire il linguaggio umano. Ma l’estate scorsa il supercomputer Watson ha vinto il quiz tv Jeopardy, dove le domande erano ricche di riferimenti emotivi, giochi di parole, battute». Robot con le nostre capacità intellettive disporranno dell’intero scibile umano, poiché leggeranno tutto il Web e non dimenticheranno nulla: difficile immaginare come sarà il mondo tra 20 anni. E difficile accettare un tale cambiamento: «La nostra intuizione del futuro è lineare, mentre il progresso è esponenziale (inoltre i progressi iniziali sono difficili da percepire, poiché la curva logaritmica parte quasi piatta, per poi impennarsi)».

Fonte: http://www.ilsole24ore.com

Apple è l’azienda più prestigiosa al mondo, secondo Fortune

Sul podio della classifica anche Google e Berkshire Hathaway

NEW YORK  Per il quarto anno consecutivo, Apple è in vetta alla classifica delle aziende con la migliore reputazione al mondo. Secondo la rivista Fortune, che pubblica la lista dal 1997, “il ritmo con cui introduce nuovi modelli e innovazioni ha fissato lo standard del settore; un esempio è il lancio dell’iPad 2 ieri a San Francisco”.

Segue Google. grazie ai “continui sforzi per sviluppare nuovi prodotti, come dimostra il sistema operativo per cellulari Android”. All’ultimo gradino del podio, Berkshire Hathaway, la holding presieduta dal multimiliardario Warren Buffett.

Al quarto posto, c’è Southwest Airlines, la lowcost americana fondata nel 1967 da Herbert Keller e Rollin King. Con vendite globali annue a 79 miliardi di dollari, Procter & Gamble chiude la top 5, confermando il suo dominio nella speciale classifica dei produttori di beni di consumo.

Coca-Cola è prima tra le aziende produttrici di bevande, al sesto posto generale. Grazie al successo del Kindle, l’ebook più venduto al mondo, Amazon.com si classifica settima.

FedEx non si è ripresa dalla recessione come avrebbe voluto (di recente, ha rivisto al ribasso le previsioni di profitti per il quarto trimestre fiscale del 2010) ma continua a essere annoverata nel ristretto gruppo delle 10 aziende con la migliore reputazione al mondo.

Solo nona, Microsoft, la società di Bill Gates, il secondo uomo più ricco al mondo nel 2010. McDonald’s mantiene il primato tra le aziende di fast food e chiude la top 10. Undicesima Walmart; 12esima Ibm; 13esima General Electric; 14esima Walt Disney; 15esima 3M; 16esima Starbucks; 17esima Johnson & Johnson; 18esima Singapore Airlines; 19esima Bmw -prima fra i produttori automobilistici; 20esima American Express.

Fonte: http://www.lastampa.it

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