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App Store, dieci miliardi di download

Il traguardo raggiunto in meno di tre anni: per le canzoni su iTunes ce ne sono voluti sette

Dieci miliardi di App: più di una e mezza per ogni abitante della Terra, compresi neonati e ultracentenari, da New York alla Siberia. Il record è stato raggiunto qualche ora fa, portando alla fortunata vincitrice (Gail Davis di Orpington, Kent, Regno unito) un buono da 10 mila dollari. E battendo di parecchio l’altro negozio gemello di Apple, quel Music Store che al traguardo dei dieci miliardi c’era arrivato poco meno di un anno fa, il 24 febbraio 2010. Ma aveva impiegato quasi sette anni, visto che aveva debuttato nell’aprile 2003. Invece l’App Store è nato  nel luglio 2008, e all’inizio vendeva soltanto software per iPhone. Oggi è diffuso in 90 Paesi e le app disponibili sono oltre 350 mila (di cui 60 mila per iPad).

Oggi i dispositivi compatibili sono oltre 160 milioni, c’è l’iPod Touch e da qualche mese anche l’iPad, che ha una categoria di app a sé. Ma per comprare una canzone su iTunes basta un computer (pure Windows), non è necessario possedere uno dei quasi 300 milioni di iPod che Apple ha venduto in tutto il mondo.Insomma, anche se iTunes è diventato il più grande negozio di musica del pianeta, sui dispositivi iOS ci sono più app che canzoni. Legali, perlomeno, visto che per la musica il tasso di pirateria rimane molto alto, mentre la percentuale di quelli che hanno scardinato le protezioni dell’iPhone è decisamente più bassa.

D’altra parte, è il modello stesso ad essere diverso: Steve Jobs si è battuto in prima persona perché le canzoni vendute su iTunes Store fossero libere da lucchetti digitali e compatibili con apparecchi diversi (anche non Apple). Ma ha scelto poi un sistema chiuso per l’App  Store, che è l’unico modo per installare un programma su iPhone, iPod Touch e iPad.

L’idea del negozio di software per smarphone esisteva già (con Symbian di Nokia, essenzialmente), ma Apple ne ha fatto un business redditizio e perfino divertente. iPhone, iPod Touch e iPad sono apparecchi che possono cambiare uso e aspetto a piacimento, non essendo legati a una particolare interfaccia fisica, così basta un’app e si trasformano da console di gioco a terminali business, passando per mille altre funzioni, utili e inutili.

“L’App Store ha superato le nostre più rosee aspettative,” ha affermato Philip Schiller, senior vice president Worldwide Product Marketing di Apple. “L’App Store ha rivoluzionato il modo in cui il software viene  sviluppato, distribuito, scoperto e venduto.  Mentre altri cercano di copiarlo, l’App Store, continua ad offrire a sviluppatori e clienti l’esperienza più innovativa sul pianeta.”  Intanto a Cupertino guardano già oltre: due settimane fa, infatti, ha aperto i battenti l’App Store per computer Mac. In un solo giorno ha venduto un milione di programmi.

Fonte: www.lastampa.it

Ferrari, Google, Coca Cola, le aziende con più commenti su Facebook

Text 100 ha realizzato in collaborazione con e.Life una ricerca per indagare come le aziende usano Facebook e come interagiscono con gli utenti italiani.
Lo studio ha preso in esame circa 200 brand italiani e internazionali e 15 categorie merceologiche e ha analizzato oltre 1.000.000 tra post, commenti e link in italiano pubblicati in wall aperti, fan page e gruppi di Facebook.
E’ stato preso in considerazione il periodo tra il 1 novembre e il 31 dicembre 2010.
I post relativi alle 10 aziende più commentate, rappresentano il 40% del totale dei commenti nel periodo analizzato.

La classifica delle aziende più commentate:
Non stupisce che nella top ten dominino multinazionali come Google, Coca-Cola, Disney (rispettivamente prima, seconda e sesta) e campioni del web come YouTube (quarta) e Yahoo (settima).
Più sorprendente il quinto posto di  MySpace ma soprattutto la presenza nelle top ten di brand italiani: Ferrari, FIAT e Mediaset, rispettivamente terza, ottava  e decima.
Ma sono anche altre le aziende del nostro paese che riescono a utilizzare con estrema efficacia sia in termini quantitativi che qualitativi lo strumento “Facebook”.
Ad esempio TIM, tra i primi nella speciale classifica di gradimento, ha ottenuto oltre 5.000 “like” a novembre e dicembre.
Segue Pupa con 4.455 “like”, che ha dimostrato anche una buona capacità di coinvolgimento sulla propria fanpage, in particolare grazie alla campagna sul “cofanetto di tuoi sogni” che nel mese di dicembre ha ottenuto centinaia di commenti. Le fan page più popolari
Solo il 25% delle aziende oggetto della ricerca possiede una fan page in Italiano e tra queste spiccano Vodafone con oltre 638.000 fan e più di 7.000 commenti, IKEA con “soli” 96.436 fan ma con ben 4.833 “like”, TIM con 165.867 fan ma oltre 5.000 “like” e 3.400 commenti e, come già detto, Pupa che spicca per numero di fan (oltre 59.000)  e di “like” (4.455) .
Lo studio ha anche valutato quali siano le fanpage più apprezzate dagli utenti e, in questa speciale classifica, che incrocia le variabili gradimento  (like/fan) e coinvolgimento (post del brand/commenti dei fan),  è Pupa a primeggiare, seguita da IKEA, TIM  e Vodafone.
Sempre a proposito di gradimento, interessante è la top five dei post che sono piaciuti di più, ovvero quelli che hanno ottenuto il maggior numero di fan: BMW primeggia con ben due post in classifica (al primo e al quarto posto), in piazza d’onore IKEA, Vodafone si inserisce con due post in terza e quinta posizione.
Dalla ricerca di Text 100 ed e.life emerge che la maggior parte dei post appare nei “wall pubblici” e non nelle fanpage delle aziende, segno che – quando si parla di social network – l’ascolto è molto importante.
Non sempre infatti le aziende più attive nella loro fanpage sono capaci di coinvolgere i fan in un dialogo a due vie.
Sono numerosi i wall in cui le aziende si limitano a pubblicare i propri messaggi, senza tenere in debita considerazione i commenti dei visitatori o quello che si dice di loro su altri wall.  Quindi quando si definiscono gli obiettivi legati a Facebook è importante non solo puntare al numero di fan ma anche darsi dei target qualitativi, ovvero in termini di coinvolgimento e gradimento.

Fonte: www.bitcity.it

Wired Italia, ecco i 10 giovani CEO più potenti del web

Wired Italia ha deciso di proporre l’elenco dei 10 giovani CEO più potenti e promettenti del Web, che con la loro guida visionaria hanno portato al successo le rispettive aziende.

Il CEO (chief executive officer) è un concetto utilizzato soprattutto in economia e nel giornalismo ed è la persona che ha il potere decisionale come delega da parte del consiglio di amministrazione. Nelle società più giovani il  CEO è spesso lo stesso fondatore.
Wired, rivista mensile che tratta tematiche di carattere tecnologico  e di come queste influenzino la cultura, l’economia, la politica e la vita quotidiana, ha stilato l’elenco  dei giovani CEO più potenti del mondo.
1- Mark Zuckerberg. Il fondatore e CEO di Facebook ha un patrimonio netto valutato in oltre 6,9 miliardi di dollari di cui condivide il 24% con la sua società Facebook Inc.
2- Larry Page. Con Sergey Brin è il fondatore di Google. Recentemente è stato annunciato che diverrà il nuovo CEO della sua creatura dopo che per 10 anni questo importantissimo ruolo è stato ricoperto da Eric Schmidt.
3- Gianluca Cozzolino. E’ il CEO di Ciaopeople, una media company napoletana che veicola oltre 25.000.000 di pagine viste mensili e che non ha mai ricevuto finanziamenti da parte di venture capitalist.
4- Dick Costolo. Dopo aver ricoperto il ruolo di COO e aver ottenuto ottimi risultati, ora Dick Costolo è stato chiamato dall’amministrazione del gruppo a ricoprire la carica di CEO di Feedburner per monetizzare il più possibile la pubblicità sulla piattaforma.
5- Robin Li. E’ il co-fondatore e CEO di Baidu, il più grande motore di ricerca cinese.
6- Michael L. Chasen. E’ il fondatore il CEO della Blackboard Express, società nata nel 1997 e leader nei servizi all’educazione digitale con un capitale di mercato poco inferiore al miliardo di dollari.
7- Adam Norwitt. E’ il CEO di Amphenol, aziende tra le maggiori produttrici al mondo di fibre ottiche per connessioni veloci e sistemi di cablaggio.
8- Dara Khosrowshahi. E’ il CEO di Expedia, il più grande portale/motore di ricerca (booking service) di viaggi del mondo.
9- Michael G. Rubin. Fondatore e CEO della GSI Commerce, leader nella fornitura di servizi di e-commerce, è universalmente riconosciuta come l’azienda che muove il mercato del commercio online.
10- Massimo Banzi. E’ il CEO di Tinker, la società che segue l’evoluzione del progetto Arduino, un microprocessore open source, messo gratuitamente a disposizione di chiunque lo voglia utilizzare, modificare o vendere e che, dopo la sua diffusione gratuita sul Web, ora viene utilizzato in tutto il mondo.

Fonte: www.bitcity.it

Facebook, Zuckerberg beffato Un hacker gli ruba il profilo

NON poteva esserci modo migliore per dimostrare quanto Facebook sia insicuro. Un hacker dall’identità ancora ignota ha preso il controllo della pagina ufficiale di Mark Zuckerberg 1, il fondatore del social network, divertendosi a lanciare messaggi alle migliaia di fan del giovane miliardario. Giusto il tempo di raccogliere 1.800 “mi piace” e circa 500 commenti al suo unico post e il social network è stato costretto a rimuovere la pagina del fondatore, senza rilasciare almeno al momento alcun tipo di commento. Una figuraccia globale a cui prima o poi dovrà dare una spiegazione.

GUARDA IL MESSAGGIO DELL’HACKER 2

Il messaggio inviato dallo Zuckerberg posticcio era questo “Che l’hacking abbia inizio: Se Facebook ha bisogno di soldi, invece di andare dalle banche, perché non permette ai suoi utenti di investirvi in modo sociale? Perché non trasformare Facebook in un “social business”, nel modo in cui lo ha descritto il vincitore del premio Nobel Muhammed Yunus? Che ne pensate?”. Un chiaro riferimento al recente investimento di Goldman Sachs nel social network quindi, con una proposta da parte dell’hacker di abbandonare i sistemi capitalistici tradizionali per abbracciare l’esperienza di Yunus e del suo social business, in cui i ricavi non sono distribuiti tra gli investitori

ma usati per il miglioramento dellastruttura stessa e per scopi sociali.

Il messaggio “rivoluzionario” dell’hacker ha ricevuto commenti e insulti, ma di sicuro ha colpito l’attenzione dei lettori, increduli di fronte a una comunicazione del genere. Insieme al messaggio, il finto Zuckerberg ha lasciato il riferimento dell’hashtag #hackercup2011, un codice usato nelle conversazioni sul sito di microblogging Twitter. Si tratta di un’ulteriore beffa per Facebook, visto che l’Hacker Cup 2011 altro non è che il concorso indetto dal social network per far emergere i migliori talenti del panorama informatico. L’autore dell’attacco alla fan page di Zuckerberg si candida quindi come un probabile vincitore, seppure fuori dagli schermi, del concorso.

A parte la figura non certo esaltante per Facebook e il suo fondatore (e per gli addetti che si occupano della pagina), il problema della sicurezza sui social network torna all’attenzione degli ormai 600 milioni di utenti del sito. Proprio in queste ore veniva diffuso l’ultimo rapporto sull’argomento, stilato dalla società di sicurezza informatica Sophos, che indicava i social network come uno dei principali veicoli di malware e spam. Ma se neppure Mark Zuckerberg è in grado di custodire la propria password, chi può dirsi davvero al sicuro?

Fonte: www.repubblica.it

“Si decolla, usate i cellulari” Sugli aerei cade l’ultimo tabù

NEW YORK – Avete mai volato con Veritas Airlines? “Vi ricordiamo che da questo momento in poi tutti i cellulari devono restare spenti perché possono interferire con la strumentazione di bordo. Cioè, questo è ciò che finora vi abbiamo raccontato…”. Prego? “Per la verità vi chiediamo di spegnerli perché potrebbero interferire con la rete mobile a terra: ma la richiesta non avrebbe lo stesso effetto. Del resto nella maggior parte dei voli c’è sempre qualche cellulare che resta acceso per errore: e se fossero davvero pericolosi non li avremmo neppure ammessi a bordo”.

No, Veritas Airlines non esiste. Ma la hostess virtuale inventata dal settimanale Economist ha fatto da tempo il giro del web per la gioia degli irriducibili telefonisti. Eppure l’affermazione è nero su bianco perfino sul sito della Federal Aviation Administration: “È dal 1991 che i cellulari sono stati banditi in volo perché possono interferire con le comunicazioni a terra”. Ma allora la sicurezza aerea c’entra o no?

La questione è complicata dai modelli di ultima generazione: gli smartphone che permettono l’uso in modalità “aeroplano” – con cui si può ascoltare musica, guardare un film, leggere un libro, ma non telefonare. Qui, negli Usa, la legge delega alle singole compagnie la facoltà di autorizzarne l’uso. In Europa la discrezionalità spetta invece al comandante. Ma la “veritas” dove sta?Dal 2000 a oggi,

solo una decina sono state le denunce presentate dai piloti per problemi con i telefonini. E il cellulare viene ritenuto tra le cause di almeno una tragedia aerea. Un volo charter caduto a Christchurch, Nuova Zelanda, 2003, otto morti: solo che al telefonino non c’era un passeggero, ma il pilota. Basta un solo episodio per sollevare il caso? “È la classica notizia mezza buona e mezza cattiva”, taglia corto al New York Times David Carson, un ingegnere della Boeing. “Notizia buona: gli apparecchi elettronici non provocano sempre problemi. Notizia cattiva: la gente preferisce pensare che non li provocano mai”.
La notizia cattivissima è però quello che suggerisce un altro esperto, Bill Strauss: “Un telefono che magari non funziona bene, una batteria difettosa, la strumentazione di bordo non proprio aggiornata e… boom: ecco la tempesta perfetta che provoca la tragedia”.

Eppure la certezza ancora non c’è. E così tra cellulari, iPad, iPhone e Gps si continua ad andare in ordine sparso. Dall’Europa agli Usa le telefonate sono permesse “fino alla chiusura delle porte”: è la conseguenza di un test a terra condotto 4 anni fa da American Airlines. E perché invece siamo pregati di spegnere “ogni tipo di apparecchiatura elettronica” in fase di decollo o di atterraggio? In quei momenti, spiegano alla Faa, sarebbe molto più complicato per il personale di bordo controllare ogni interferenza.
Non basta. I voli più moderni sono dotati di una protezione migliore. “Ma le migliorie tecnologiche sugli aerei si contano ogni vent’anni” dice l’esperto di sicurezza Doug Hughes “mentre l’industria degli apparecchi elettronici sforna nuovi modelli ogni settimana”. Che fare?

L’Unione europea ci sta studiando su da un paio d’anni. Nell’attesa, da Ryanair a Emirates passando per Qantas, le aerolinee di mezzo mondo si sono già attrezzate con la tecnologia “inflight”: un sistema che bypassa la rete terrestre e la strumentazione di bordo consentendo di telefonare ma non di navigare.
Negli Usa, invece, da United-Continental a Delta, è già realtà il wi-fi. Qui, al contrario, si naviga ma non si telefona: e i servizi per chiacchierare in rete, come Skype, sono disabilitati. Ma anche stavolta, come direbbe l’hostess di Veritas Airlines, la sicurezza non c’entra. Il divieto di telefonare in volo ha una spiegazione più terra terra: “Si prega di non disturbare”.

Fonte: www.repubblica.it

Imprese: tre aziende italiane su dieci usano i social media

Milano, 24 gen. – (Adnkronos) – E’ del 32,5% la percentuale delle aziende italiane che fanno uso di social media. Questo il dato che emerge da una ricerca svolta tra maggio e novembre del 2010 su un campione di 720 aziende distribuite su tutto il territorio nazionale dall’universita’ Iulm di Milano. Dallo studio emerge che il 73% delle imprese intende rafforzare l’uso dei social network. In cima alla classifica dei social network piu’ appetibili troviamo Facebook (20,1% delle aziende vorebbero usarlo) ma il 14,2% delle imprese intende usare i blog. L’indagine ha preso in considerazione sei settori: moda, alimentare, sanitario, pubblica amministrazione , banche e elettronico. Per ciascun settore sono state analizzate 120 aziende ulteriormente segmentate per dimensioni ( 40 ‘grandi’, 40 ‘medie’ e 40 ‘piccole’). L’attribuzione dimensionale, rende noto lo Iulm, e’ stata effettuata in relazione ai dati di fatturato con classi differenziate in relazione allo specifico di ciascun settore analizzato. “Attraverso la valutazione di tre dimensioni -dice Guido Di Fraia, responsabile scientifico Master Social Media Marketing dello Iulm e relatore della ricerca- e’ stato possibile valutare l’uso piu’ o meno strategico dei social media da parte dell’azienda. Le tre dimensioni prese in considerazione sono: orientamento 2.0, gestione e efficacia delle azioni adottate. La misura di queste 3 dimensioni ci ha permesso di ricostruire quello che abbiamo definito l’indice di SocialMediAbility dell’azienda stessa”. Di Fraia spiega che “l’indice di SocialMediAbility permette di ricostruire il livello di sviluppo delle attivita’ di social media marketing messe in atto dalla singola azienda e confrontarla con quella di altre aziende del settore”.

Fonte: www.adnkronos.com

Google, la ricerca non è imparziale

Un nuovo studio accusa Mountain View di manipolazione volontaria dei risultati nelle ricerche web. L’autore dello studio è consulente pagato da Microsoft, ribatte Google

Roma – Ben Edelman colpisce ancora: il professore di Harvard, già noto per le sue indagini sulle magagne dei giganti del web, e di Google in particolare, accusa di nuovo Mountain View di comportamento scorretto nei confronti della concorrenza e degli utenti. Sotto accusa in questo caso ci finisce la ricerca web, il servizio che è la base dell’impero telematico del Googleplex e che secondo Edelman verrebbe gestito in maniera niente affatto “imparziale” o matematicamente agnostica.

Edelman e colleghi hanno scoperto che gli algoritmi incaricati di fornire i risultati di una ricerca su Google presentano una classifica di link favorevole ai servizi offerti da Mountain View tre volte più spesso di quanto capiti con i siti concorrenti. Nel loro studio i ricercatori di Harvard prendono in esame keyword popolari come “mail”, “email”, “maps”, “video” e quant’altro ricavandone l’idea che il ranking è spesso e volentieri in sintonia con l’offerta di servizi web di Google.

Anche Yahoo!, assieme a Google, tenderebbe a favorire la propria bottega rispetto a quelli che al contrario risulterebbero essere i servizi realmente desiderati dagli utenti. “Tipicamente Google sostiene che i suoi risultati vengono generati da algoritmi, sono oggettivi e mai manipolati – dicono gli autori dello studio – Google chiede al pubblico di credere che gli algoritmi decidano, e che le sue partnership, le aspirazioni di crescita o i servizi connessi non influenzino i risultati. Noi dubitiamo di tutto ciò”.Edelman e colleghi sono insomma della stessa idea dell’Unione Europea, che ha deciso di mettere Google sotto inchiesta per le denunce circa l’accusa di comportamento anticompetitivo nella gestione dei risultati nelle ricerche web. I ricercatori sperano di vedere applicati agli algoritmi di ricerca gli stessi scrupoli di indagine “terze” adottati per le API e il codice di Windows.

E proprio Microsoft, stando alla risposta del portavoce di Google Adam Kovacevich allo studio, si celerebbe dietro queste nuove accuse di parzialità ai suoi algoritmi “matematicamente imparziali”. “Il signor Edelman è da lungo tempo un consulente stipendiato da Microsoft – accusa Kovacevich – quindi non sorprende che sia l’autore di un test assai prevenuto in cui il suo sponsor passerebbe mentre Google fallirebbe”.

Fonte: www. punto-informatico.it

Tu parli, lo smartphone traduce Ecco Google Conversation Mode

Si annuncia rivoluzionaria la nuova applicazione di Google per il sistema operativo Android. Il suo nome è Conversation Mode ed è stata ottimizzata di recente per consentire agli interlocutori di dialogare con persone di nazionalità diverse. Una manna dal cielo per quanti viaggiano di continuo e anche per chi di imparare le lingue proprio non ne vuole sapere. Qualche mese fa il gigante ne aveva lanciato il demo, e ora rilascia la versione definitiva. E così gli smartphone diventano una sorta di traduttore vocale istantaneo.

Il debutto del Conversation Mode arriva in occasione del primo compleanno di Google Translate, uno dei servizi mobili di Google dedicati alla traduzione multi lingua, utilizzato ogni giorno da utenti disseminati in 150 paesi differenti. Questa nuova applicazione è facile da usare, non solo in modalità vocale ma anche scritta: è stata modificata la selezione delle coppie di lingue per le traduzioni e soprattutto resa più usabile la casella di inserimento del testo. Google ha provveduto anche a ridisegnare le icone e il layout per fornire una maggiore chiarezza d’insieme.

Funziona così: si preme un pulsante sul touchscreen del dispositivo quando si vuole parlare. Dopo aver pronunciato una frase, che sarà “catturata” dal microfono dello smartphone, l’applicazione la tradurrà nel giro di pochi secondi nella lingua scelta e la riprodurrà ad alto volume. In questo modo si può tradurre un’intera conversazione.

Basta tenere aperta l’app, e il telefono diventerà la chiave per accedere a idiomi sconosciuti.

Sbaglia o no? “La modalità di conversazione è ancora in una prima fasi”, ha spiegato Awaneesh Verma, Product Manager di Google: la funzionalità non è sempre corretta al 100%, come qualsiasi metodo attuale di traduzione automatica, ma Google stessa spiega come i problemi nello sviluppo di un servizio simile siano tipici della natura del linguaggio: “Cangiante, vario e pieno di deviazioni basate su infiniti dialetti, accenti, slang o semplicemente discorsi rapidi”.

Così si lavora per migliorarne la precisione e il numero di lingue disponibili agli utenti. Attualmente infatti funziona per un numero limitato di idiomi (inglese, spagnolo, tedesco) ma la promessa è quella si estendere l’interprete automatico ad ognuno degli oltre 50 linguaggi contemplati dal servizio. Presto, ha annunciato Hugo Barra, Product Management Director di Google, diventerà il più grande traduttore simutaneo di tutti i tempi.

Se davvero il destino delle interfacce è quello di scomparire poco alla volta rendendo più diretta l’interazione tra l’uomo e la macchina, sembra questo uno dei percorsi da seguire: la voce per scrivere un messaggio, per pilotare la scelta di un programma tv, per scrivere una lettera, per intrattenere una discussione, per compiere una ricerca. Il futuro è servito.

Fonte: www.larepubblica.it

Starbucks, il caffè diventa 2.0 al via i pagamenti con iPhone

Da Starbucks arriva un aroma di futuro. Del resto la catena di caffetterie sa come attirare i clienti più tecnologici. Ai tempi dell’introduzione del wifi, i cafè della catena Usa furono tra i primi a permettere agli avventori di collegarsi online sorseggiando un “americano”. E ora è proprio Starbucks a iniziare la rivoluzione del “moneyless”, con un’applicazione per iPhone e Blackberry che permette di pagare le proprie consumazioni semplicemente tirando fuori dalla tasca il telefono. Arriverà anche la versione Android, ma al momento Starbucks non comunica una data di rilascio. I negozi in cui l’applicazione è già attiva sono 6800, sparsi su tutto il territorio statunitense, dopo un periodo di test in alcuni locali appositamente selezionati nelle grandi metropoli. E dai risultati, il metodo di pagamento “smart” si è rivelato quello più veloce: il tempo di attesa medio per cliente è stato il più basso tra tutti. Del resto gli utenti in attesa per pagare il conto spesso giocherellano con gli smartphone. Utilizzarne uno per pagare sembra quasi un passaggio naturale obbligatorio dell’era digitale.

Starbucks Card Mobile. Questo è il nome dell’applicazione, disponibile su iTunes, e funziona come una normale scheda ricaricabile. Attraverso la propria carta di credito o utilizzando PayPal, si girano i soldi sul conto dell’applicazione. Da questo momento, sarà possibile pagare alla cassa semplicemente toccando
il pulsante “Touch to pay” sullo schermo del telefono, che farà comparire un codice a barre che verrà scansionato alla cassa. Il costo della consumazione verrà scalato dal residuo depositato nel conto dell’applicazione, e si può lasciare il locale senza monetine da sistemare o carte di credito da riporre. Un metodo che non presenta almeno in apparenza opportunità di “hacking” o falle di sicurezza. In fondo non è molto diverso dal passare alla cassa con un carrello di prodotti pieni di codici a barre da scansionare. Un approccio molto diverso da quello che sta sperimentando Google da un po’ di tempo, la tecnologia Near Field Communication 1.

Arriva NFC. Quello di Google è un progetto in effetti assai più ambizioso. L’idea di Big G è in apparenza più vicina alla fantascienza che alla realtà quotidiana, eppure non è così distante dal concretizzarsi: grazie al Near Field Communication, all’interno di un negozio basterà far “vedere” un oggetto al nostro smartphone, utilizzando la tecnologia radio che Google ha già sviluppato per il suo telefono, il Nexus S. Delle etichette speciali sugli oggetti trasmettono informazioni al telefono e la differenza rispetto ad un acquisto online è che il cliente compra in modo tradizionale, ma si salta completamente il processo di cassa e scontrino. Insomma i soldi non esistono più. Chuck Davidson, manager per l’innovazione a Starbucks, giudica il sistema NFC ancora un po’ troppo avanti sui tempi, sia per gli utenti in grado di utilizzare la tecnologia, sia per le strutture dei negozi che non hanno ancora raggiunto questo punto di evoluzione. “Quando ci saranno i numeri, lo faremo”, dichiara Davidson. Ma già oggi è possibile entrare in uno Starbucks, consumare e uscire senza portare con sé un portafogli o delle monetine. Basta lo smartphone.

Fonte: www.larepubblica.it

Il computer tra i grandi della storia

Lo chiamarono, profeticamente, ABC, senza pensare che sarebbe diventato, di lì a pochi decenni, l’alfabeto del nuovo millennio. È l’Atanasoff-Berry Computer, il primo computer al mondo, progettato e realizzato all’Università dell’Iowa tra il 1937 e il 1942 dai ricercatori americani John Vincent Atanasoff e Clifford Berry. Insieme all’Electronic Numerical Integrator and Computer (Enica), considerata dagli storici la prima macchina in grado di essere riprogrammata per risolvere problemi specifici, l’ABC il pezzo forte della prima mostra-museo organizzata negli Stati Uniti per ripercorrere la storia del computer. L’hanno aperta nel cuore californiano della Silicon Valley, a Mountain View, alle porte di San Francisco, dove già esisteva il Computer History Museum. Ma questa mostra-esibizione, non a caso denominata «Revolution: The First 2000 Years of Computing» (Rivoluzione: i primi 200 anni dell’arte del computer), vuole essere la più aggiornata, completa ed esauriente esibizione mai organizzata al mondo in tema di computer. Per allestirla sono stati spesi, infatti, 19 milioni di dollari, e tra i finanziatori vi sono nomi come quello di Bill Gates o della Hewlett&Packard. «Revolution» offre uno spaccato di quella rivoluzione di fine millennio che ha cambiato il mondo: dall’ABC, che nell’Iowa occupava un’intera stanza, all’Iphone o all’Ipad. «Sono emblematici dell’ era di transizione dentro alla quale stiamo vivendo come genere umano – ha spiegato al New York Times il presidente del museo, Leonard J. Shestek -. Dal tempo in cui non vi era alcun computer, al tempo in cui i computer sono dentro a ogni cosa che tocchiamò. Distribuita su 19 sale, la mostra è un viaggio lungo non più di mezzo secolo attraverso l’evoluzione di quell’oggetto che più di ogni altro ha cambiato il modo di vivere contemporaneo. Chi si ricorda di Commodore 64? Oggi, nell’era di Facebook e Twitter, sembra preistoria. Eppure quel computer risale appena al 1982 e fu lungo gli Anni Ottanta la macchina più popolare al mondo. La mostra resterà in modo permanente a Mountain View. «Ma come 15 anni siamo approdati nella Silicon Valley per dare vita al primo museo di computer – ha detto Shustek – non è affatto escluso che tra 15 anni apriremo questa mostra a Shanghai. Seguiamo l’innovazione, ovunque essa ci porti nel mondo».

Fonte: www.ilgiornale.it

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